lunedì 7 luglio 2014

Fallocrate in cuore fragile_Vol.3

"Allora puttana intellettuale, almeno stavolta ti sei fatta pagare?". E' Rhett. Il mio uomo. Il mio vero ed unico uomo. 
Mi è sempre accanto. Senza di lui non saprei come fare. "E io non posso fare a meno di te" mi dice lui.

Ridiamo. Sa sempre trovare la frase giusta per aiutarmi a sdrammatizzare.
Mi chiama Rossella. Dice che sono come lei. Con quella forza e vitalità e bellezza. E la creatività di non arrendermi mai. Anche in tempo di guerra. Di riuscire ad inventarmi un vestito con le tende.
Ha ragione. In fondo quella creatività è la mia forza e anche il mio "troppo".
" Non sai come mi viene duro ogni volta che ti sento parlare dei tuoi progetti, di arte e vita. Ma io ti rispetto. Faremo l'amore solo quando arriverai al Piccolo. E io sarò lì. Accanto a te".
E' un gioco fra noi. Ha sempre creduto in me. E io in lui.
E lo informo che no. Non mi sono fatta pagare. Neanche stavolta. Racconto un po'. Chiedo. Ma poi ridiamo. Mi racconta di Mr D che gli ha chiesto di me con gli occhi spenti. E in poche parole mi fa sentire amata.
"Ma dimmi del primo fallocrate in cuore fragile. Com'è andato il concerto?".



Ecco. Perché dopo aver abbracciato il mio ultimo uomo dal cuore fragile, sono partita. Ho messo in valigia il giorno dopo poche cose. Alcuni vestiti eleganti e sono andata a "casa".
Gli avevo promesso di cantare insieme. Ho preparato la valigia velocemente. Preso le ciabattine dai superpoteri e sono salita in auto.
Avevo promesso. Avrei cantato con mio padre due canzoni. Sono quasi tre anni che sta' studiando musica. Lui che l'ha impedita a me perché non era la scelta giusta di vita. Mentre la mia insegnante..  Lei mi vedeva come concertista.
Così ho lasciato il piano da bambina. Alla fine ho iniziato a crederci pure io di non dover avere fede.
Mi sono rinnegata e fatta violenza.
Dopo tanti anni mi ritrovo a prendere un pomeriggio di ferie per raggiungerlo e cantare insieme. Perché lui ora sta' tentando in tutti i modi di raggiungermi. E' tardi. Probabilmente è molto tardi, ma "Tu sei fondamentalmente buona" dice Rhett.
Avevamo fatto le prove la settimana precedente. "Un pugno di sabbia" dei Nomadi e "Tanta voglia di lei" dei Pooh.
Lo avrei aiutato nelle parti alte. Nelle parti più difficili per la sua voce. Un passaggio importante dopo tanti anni, tanto rancore e tanta analisi.
Due canzoni che appartengono a lui e anche un po' a me in questi giorni un po' tristi in cui ho perso un po' di speranza e illusione.
Dove sono sempre "la strana amica di una sera.. da ringraziare .." perché aiuto l'altro a passare "oltre" e altrove attraverso di me.
La serata è alla Fortezza di Sarzana. Un posto incantato e fermo nel tempo. Arrivati al palco mio padre inizia ad avere paura. Non vuole salire. Ha paura di fare una brutta figura. La sua paura. E l'autodistruttività. Le conosco bene. Ma da piccola erano furiose e violente nel corpo. Ora sono tutte su di lui. Non può più buttarle su me. Gliel'ho impedito andandomene tanto tempo fa.
Ma nel riconoscere quel movimento interiore, il suo tsunami, intervengo e gli dico che deve farlo. E che sarà bello. Poi ci sarò io a coprire eventuali sbagli.
Lo convinco. Saliamo. Inizia la prima e va bene e subito dopo la seconda. Lui canta con gli occhi chiusi. Io sorrido a mia madre che piange dopo tanto dolore, il tumore e le sirene.. E poi tanti applausi.
Scendiamo del palco e a chi gli dice "bravo" lui risponde " è merito di mia figlia". E mi guarda.
Ecco ora è doppiamente in debito. Ma in quella frase si asciugano tanti errori e dolori.
Se mio padre mi riconosce, forse non avrò più bisogno di farmi male con uomini fallocrati dal cuore fragile. Forse chiudo la serie a tre. E magari inizio una nuova fase.

In macchina mia madre mi chiede di me. "Dove sei stata ieri sera?". Con l'ultimo uomo dal cuore fragile. Non glielo dico. Lo penso.
"A bere una birra". E lei che ha la paranoia dell'alcool, della notte e delle mie uscite dice: " Ma ti fa male. Poi mangi poco e..".
Mio padre interviene e per la prima volta in tanti anni mi difende e dice: " Cosa vuoi che le faccia una birra e un'uscita. Lasciala stare".
Cala il silenzio. E penso che se sta' cambiando lui, se sono riuscita a fare cambiare lui, almeno un po', anche se in ritardo, alla fine qualcosa di buono in me c'è stato. C'è e farò.
Lui che dai quindici anni mi ha rinchiusa in casa e m'impediva di fare una normale vita sociale per timore di me, di sé, del maschio su di me.
Arrivati a casa per caso leggo un articolo su Pennac e la paura. Lo scrittore dice di aver avuto problemi a scuola. Era poco gestibile. Faceva tante cose dispersive, senza senso. Dispetti. Inventava situazioni che lo portavano a fuggire da sé. Ma inventava.
Ebbe la fortuna d'incontrare un maestro. Gli disse un'unica frase, ma quella giusta. Che fu d'indirizzare le sue paure in cose creative. Di usare quella creatività in altro modo e allora sarebbe stato un successo.
Fu così che iniziò a scrivere e a mettere tutte le sue paure in parole e romanzi creativi.
Mi sono riconosciuta. Nella paura che ti porta a fare cose dispersive. E forse in un certo senso istintivamente, per anni, ho usato la scrittura per trasformare impulsi creativi che mi avrebbero devastata se lasciati in pancia.
Mi addormento con questo concetto. Penso che John sia il maestro che ho incontrato. Grazie a me alla fine. Perché di fortuna negli incontri non ne ho mai avuta. La paura è la nemica della vita.

Il giorno dopo devo dire tutte queste cose al mio amico dal cuore fragile numero tre. Gli mando sms su whatsup perché io ho capito delle cose per lui. E dentro di me c'è ancora quella strana lealtà e desiderio di dirgli che sta' sbagliando. O di aiutarlo. Che sta' come cercando una normalità che lo mantenga.
Poi quasi ingenuamente lo supplico di trasformare. Che non ha senso rinunciare alla parola o all'intelligenza. All'anima. Al caos che gli rimando. All'anarchia vitale e creativa che ho e che ha lui. Ma mi rendo conto che probabilmente è proprio da quello che tenta di fuggire se ricerca personalità più ingabbiate. O se per lui è ancora importante il giudizio o frequentare amici che sembrano usciti fuori da un CD di Fabri Fibra.
Perché per forza di cose, se non altro per la mia età che era "un" o "il" problema, il dialogo e la relazione con me deve e dovrà essere diversa.
Poi acconsente a trasformare, ma a non scriverci spesso perché "non voglio che tu mi pensi troppo". E ho l'espressione di chi ha appena sentito una di quelle battute da film americano.. Quelle un po' fatte e banali. In fondo me l'ha detto lui che sono grandicella.. solo le bambine si rincoglioniscono a pensare a qualcuno che non c'è. O a scrivere "t'amo sulla sabbia" ascoltando Ramazzotti..
Lo lascio con la richiesta di non lasciarmi il ricordo di uno sperma e basta. Perché allora sarà il vero fallimento.
Dice: " Stai tranquilla". E in quella frase solitaria sento la freddezza di qualcosa che non sarà più. O l'odore che tornerà forse, ma con la maschera dell' " amico" che parla senza dire. E dice cose di cortesia. Ma io sono maleducata. Io grido dentro vita e autentica felicità.. Sono la diversa normalità. 

Domenica 6 luglio. Mio padre ha un incidente con la bici. Si fa portare a casa. Non vuole andare in ospedale. Sono sempre lì. Lui e mia madre. Da sempre.
Mamma mi sveglia angosciata: " Guarda che tuo padre è caduto. Ha picchiato la testa e sta' di là in giardino, fermo, senza parlare".
Così devo intervenire. Ha rotto il casco della bici. Gli parlo e non ricorda cosa sia successo. Non sta' in piedi. Non riesce a camminare. Ha chiaramente qualcosa di rotto. Ma poi ha sfasciato completamente il casco.
Chiamiamo l'ambulanza. I ragazzi arrivano subito. Sono gentili. Hanno quella cadenza dolce dei miei posti. Uno è molto carino e ha gli occhi buoni. Fa parlare papà e lo sgrida. E dice che chi l'ha portato a casa è da denuncia. Papà ha freddo, senso di nausea e vomito.
Lo immobilizzano, mettono su una barella e andiamo al pronto soccorso.
Lo ricoverano subito con codice rosso. E resto in sala d'attesa con mia madre. Ho un vestitino verde. Corto. I capelli raccolti. E mi sento sempre leggera e giovane. Il mio corpo mi ridà l'età della mia anima. E non sento fatica.

Arrivano gli zii. Mio fratello con la compagna e il mio piccolo nipotino. Passiamo la domenica in ospedale. Io guardo il mio angioletto che se mi avvicino ride. "Parla" da solo. O con qualcuno. O chissà che vede.
E' sera. Finalmente lo dimettono. La testa per fortuna è a posto. Ma ha l'osso sacro rotto e un'altra frattura all'anca. Non può camminare. Per un po' non potrà camminare. Un po' un pasticcio con mia madre devastata dal tumore.
Esce con la sedie a rotelle. Mio fratello lo aiuta a salire in auto. Nella mia. Mi guarda e mi dice: " Scusa". Io non rispondo e non capisco se quelle scuse sono per il passato o per il presente.
Ma lui è caduto. Come mamma un mese fa. Cadono. Si fanno male.
E' caduto in quel buio come tanti anni fa e non ricorda. E io con lui. No. Io ricordo. Pure troppo. Ma ora sto' riuscendo a superare per andare oltre me stessa.
Ma ormai non importa più. La mia vita è quella che è. Sono più forte ora. Ho capito che non dipende da me. Non dipendevano e non dipendono da me tutti gli incontri fallimentari.
Il fallocrate numero tre mi manda un sms con una luna. Penso: " Sarà per il Caligola di Camus? Magari lo leggesse..".
Non rispondo. Non so che dire. Perché se continua a scambiare un gioco di relazioni con le maschere, io non so reagire. Le ho tolte da tempo per vivere veramente.
Deve capirlo chi sono e cosa può avere con me. O saranno scambi di vuoto. E resterà un cuore fragile che si risveglierà tardi. Troppo tardi.

Penso alle scuse di mio padre. Forse posso farmele bastare. In fondo, domani è un altro giorno..



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