domenica 31 agosto 2014

Touch and go

"Ti penso ogni giorno. Sei sempre nel mio cuore. Volevo che tu lo sapessi Annalisa".
Mi sveglio  una mattina di queste mie ferie low cost, in Liguria, con l'sms di Mr D. Il mio Cuore Fragile numero due.
Non so se rispondere. Sono mesi che ho deciso di chiudere un gioco perverso. E ogni tot si ripresenta tentando di amare. O "fare sesso".. boh..
Sono lontana da lui.
Sento le ferite e la mia incoscienza. Sono stanca di una mancata umanità.
Quello da cui sono fuggita e che mi spaventava, mio padre, ora torna. Per recuperare.
Mi aveva chiesto scusa un mese fa. Mentre lo andavo a prendere in ospedale.
Ora sono a casa e da una settimana vuole comprarmi una macchina. Lui che non voleva neanche che la prendessi la patente. Perché ero incapace. Distratta. Inutile forse. Le sue paure su di me per distruggermi.
Mai un soldo per aiutarmi. Mi mantengo a stento e con orgoglio da sola da quando avevo 19 anni.
Ora torna in maniera così forte. Imbarazzante a tratti per me che non sono abituata a ricevere.

E' passato. Dimentica Annalisa. Dimentica. Lui è diverso. Sono passati tanti anni. E io non soffro più. Non soffro più?
Non è vero. Tremo ancora a certi suoi cambi d'umore. Quando urla a mia madre perché non ce la fa e lo limita con e nella sua malattia. Tremo ancora anche se i cambi ora sono diversi e vuole darmi.
Fassbinder dice che così è più semplice; Rhett di accettare solo se è proprio necessario e di non illudermi troppo per un cambiamento.
Eppure sono io ora ad esistere come persona diversa e lontana.. Eppure.. So solo che sono nata da sola, tra fughe e sangue evaso per strada. In tutti questi anni in cui ho perso anche un po' di me. In nome dell'amore..
Per approdare da John.
Gli ho scritto qualche giorno fa. Voglio interrompere l'analisi. Non mi è mancato in quella modalità. Niente di quello che è in quello studio. Le parole e tutto questo dire.. I soldi. La verità che si declama, ma ...
Gli ho detto che c'è un neo tra me e lui. Ho tentato di fargli capire che l'amore non ha prezzo. Ed è l'unica cosa che salva. E che per certi aspetti non mi sono sentita compresa.
C'è un "gap" di senso circoscritto ad una mia responsabilità. Eppure non si è in due? Forse.
Non si può vendere. L'amore. C'è un controsenso. Un conflitto.
Ora, solo ora, sono consapevole che solo l'amore può salvare. Solo l'amore mi ha potuta salvare. Quel grido primordiale anche quando non potevo fuggire..era un grido d'amore.
Quello che chiamo e ho chiamato per tutti gli uomini fragili che mi hanno riso in faccia.
Non sono arrabbiata. Sono in cammino verso una sorta d'indifferenza. A John voglio molto bene perché è onesto, ma a volte etichetta di "utopia" pensieri che per me hanno un valore profondo.
La sofferenza più grande è rendermi sempre più conto della mancanza di amore e del paradosso perverso dei messaggi di amore con cui ci bombardano.
La maggior parte delle persone che incontro non sa amare. Ho occhi nuovi grazie all'analisi. Gliene sono riconoscente. Eppure qualcosa deve cambiare o è cambiato.

Ho risposto a Mr D. Ora è la danza degli sms e degli inviti.
Gli sarà venuta nostalgia del mio corpo e dei miei giochi. O sarà a secco di carne. Non ha capito che era solo per amore che c'ero? Anche in quello.. Ma ora che mi sto' risvegliando, vedo che lui non sa amare.
E come potrebbe se non ama se stesso?

Quasi dieci anni fa entravo nello studio di John con il fallimento nelle lacrime.
E in quell'amore e il suo fallimento avevo già la risposta. Avevo già tra le mani qualcosa che poteva  portarmi dentro me stessa. Nient'altro poteva portarmi all'interno della mia ghianda e del mio senso.
Tutto il resto è ben al di sotto dell'amore. E non lo sappiamo. Continuiamo a comprare merendine del Mulino Bianco e fare secondo l'età, le etichette, per consumare le ore, la vita adeguandoci a qualcosa. Ma a che cosa? Sarei pronta a farmi fuori piuttosto che adeguarmi. Mi farei fuori senza un senso autentico. Io non lo so se John l'abbia capito. Che senza un amore fondato su una verità, io non so vivere.

"Mio padre è mio padre, va bene. E' più complesso. Ma perché Mr D. e Ragazzo sono venuti a cercarmi? Cosa volevano da una come me? Scopare?".
Lo chiedo a Fassbinder chattando dal mio scoglio di fronte alla casa di Shelley. Dice che crede di no. Ma che ci sono uomini che ambiscono ad una donna ideale, ma poi cadono non riuscendo a raggiungere quell'idea.
Poco distante una coppia mi fa strani segni mimando "foto", "foto". Dico: "State dicendo a me? Volete che vi faccia una foto?".
Sono imbarazzati poi lei finalmente: "Dietro di te.. ti sta' facendo un servizio fotografico..". E indica un vecchio con la pancia, i capelli lunghi alla Forattini con in mano un cellulare. Appena capisce che mi sono accorta di lui, scappa. Urlo: "Ma come ti permetti?".
Provo a rincorrerlo tra gli scogli e tutta la spiaggia ride. Scappa. Qualcuno dice "Che tristezza".
Io mi risiedo pensando "Si masturberà con le mie foto in bikini?".
Ma soprattutto: sono ancora la donna delle comiche dell'amore ?

giovedì 21 agosto 2014

Davvero credi che questa sia la realtà?


Otto. Driin. Otto e trenta. Druun. Nove. Dreammm. Ne ho messe tre. Di sveglie. Io che gli orologi li lascio scaricare perché il tempo è un concetto che riesco ad afferrare solo quando corro.
Lì, in gara, "lego" il Garmin al polso. Proprio io che non sopporto "legami" al polso, al collo, alle orecchie, alle dita. Al cuore.
Non porto anelli, orologi, collane. Ho provato. E mi sento soffocare. Stringere senza senso. Perché non ho bisogno di dimostrare o ostentare niente. Fuori.
Quindi resto sull'ultimo suono. Il Dreammm delle Nove. E mi calo giù giù giù... Negli abissi del mio cuore? Delle mie immagini? Del mio inconscio?

Il Garmin lo comprai tre anni fa per correre seguendo un ritmo che fosse reale. Anche se poi in gara è il ritmo del mio cuore che fa correre le gambe.
Il mio cuore è bradicardico. Sembra una malattia o una benedizione per alcuni. Batte lento. Un battito ogni 50 secondi. A volte meno.
Deriva dal greco: βραδύς, bradys=lento e καρδία, cardìa=cuore. Ho il cuore degli atleti.
In pratica, pare, che si senta meno la fatica. Il mio cuore "consuma" meno e rende di più. Con meno battiti al minuto, corro per ore e chilometri.. E in tempo di crisi è davvero una fortuna. Risparmiare almeno in questo.
Battito lento. Orologi spenti. Nessun oggetto presente nel mio corpo, tranne il mio Garmin da gara, che mi riporti a terra. Non in acqua. Non nei fondali di un mare che mi avvolge.

Ho gambe e cuore da donna "strana". Dio avrebbe potuto darmi un paio di tette enormi per farmi apprezzare dal mondo e "salvarmi". Invece mi ha dato un cuore bradicardico e gambe forti su cui reggere il peso della mia complessità.
E tette così piccole che la mia femminilità si avvilisce nell'incontro comune. Perché del mio cuore bradicardico s'innamorano solo i musicisti con l'orecchio assoluto. Quelli che percepiscono il battito costante e anomalo. Pas trop commun.
"Pum".......................................................................................................................................................... "Pum".........................................................................................................................................................."Pum".......................................................................................................................................................... Tra un "pum" e l'altro ci sono pause di riflessione. I silenzi dei miei abissi. E visioni che mi risucchiano. Ecco in quei punti, proprio lì sotto, ci sono quelle immagini che mi attraversano questi giorni. Il mio corpo ne è assorbito di continuo.
Potessi mettere il Garmin anche per afferrare in tempo i miei sogni, le mie poesie ad occhi aperti, il mondo dell'altrove che mi chiama.
Sono sospesa tra due mondi. Tra il mondo di Anna e quello di Lisa. Preferisco restare su due anche se sono pienamente consapevole che se li sposto, mischio, ottengo ulteriori possibilità. Infinite possibilità di mondi tutti plausibilmente reali.

Metto le Saucony. Piove ancora in questa Milano di agosto così diversa. Tutto piange in una decadenza che mi dice: " Davvero credi che questo sia reale? Davvero credi che questa sia la vera vita?".
Questa pioggia che paralizza e impaurisce. Le persone che entrano e escano dalla mia vita. Il lavoro che ti tiene, maltratta e usa. I desideri che cambiano. E la tristezza per questa umanità che soffre.
"Davvero credi che sia reale?".
Gli uomini che ti prendono e lasciano e io che mi faccio lasciare perché non scendo ai compromessi di una visione che tenga. Di una donna che rispecchi una "forma" e che mantenga quell'idea di coppia che si unisce, avvita e non si lascia più. Perché la ruggine intorno la trattiene. La cancrena. E vedi come in un monologo.
E parli veramente da solo.
"Davvero credi che questo sia vita vera?".

Ho sognato due vette. Due anime come due vette che si allungano senza toccarsi mai verso il cielo. Un'anima sono io, nella mia femminilità rinnovata, unica ed autentica nelle imperfezioni.
L'altra è l' Inconnu. Colui che non c'è. Un po'maschile e fragile al punto giusto per correre con me. Bradicardico o no. Con o senza garmin, ma capace di percepire il battito del mio cuore.

"Driiiiiiiiiiiiiiiin". Sono le 19. Non è la sveglia del mio sonno serale. E' Danny. L'amica che mi aveva cercata. Che aveva bisogno di me. Ora l'ho capito. La scenata di gelosia era un grido di aiuto. E' che l'ha fatto in un momento in cui anche io ne ho bisogno. Di urlare. Di gridare aiuto. Ma non ne sono capace... Piuttosto mi nascondo e muoio in silenzio. Da sola nel buio. In una dignità così maschile e ateniese.
E' in ospedale. L'ennesima lite di una convivenza che era il fantasma di una via d'uscita. Perché a volte scambiano l'altro, e gli amori, come dei compagni che ci aiutino a trovare noi stessi. E invece è la solitudine la sola compagna. Ma bisogna essere sufficientemente forti per amarla.
Salgo in auto. Il battito dei tuoni. Metto una salopette da meccanico e salgo sulla mia auto per salvare la mia bella. Ho le ballerine azzurre per far capire che sono il Principe.

"Sto' per andare ad una comica dell'amore. Da blog". Scrivo a John. Che nella sua vacanza ride. Poi penso a me. Al mio essere diventata un po' maschile per sopravvivere in un paese che non riconosce ancora di dover diventare un po' più femminile per un vero incontro d'amore.
Mentre guido, la pioggia allenta piano piano. E mi sembra di vedere le mie vette. In lontananza la speranza di un vero incontro in corsa d'amore.
Sarà il mondo dell'altrove. Il mondo di Lisa.

"Non era la cosa giusta diventare come mio padre. L'ho fatto per anni e ora finalmente ho capito che la soluzione era un'altra".

"E quale sarebbe mio caro?!?" chiede John tra una battuta e l'altra via whatsup..

"Quando la trovo la brevetto. Ti do' una percentuale se vuoi...".

"Accetto! Notte".

Chissà se John dorme con lo slippino leopardato mentre abbraccia quella che una mia amica crede sia un trans...
Un'autentica, colorata e libera vita di genere.
Eppure, addormentandomi ridendo per lo slippino leopardato di John, con Danny accanto che soffre per una liberazione e un nuovo inizio, penso agli U2. E rendo affermativa la loro canzone. As...
With or Without you
I can live
With or Without you
La dualità ha un significato così diverso. Anche gli U2 hanno un altro reale. U3, U4, U5, U6, U7...and so on and on..and on...


lunedì 18 agosto 2014

Donner pour donner

"Vai avanti. Non ti preoccupare".
John mi ha mandato questo messaggio. Qualche giorno fa. E' la risposta a: "Perché si odia chi si discosta dal luogo comune e dai più?".

Stavo rileggendo alcuni scritti. Questi del blog. Soprattutto gli ultimi. Li guardavo come se fossero tanti piccoli ragnetti. E mi sono sentita la donna ragno. Come nel mio sogno. Ho avuto paura e ribrezzo di me ancora.
Sono attorniata e circondata da donne e da maternità "normali". Da storie e relazioni che si delineano sull'onda del "normale" e del "sociale". Degli orari e dei pensieri che ti portano lì o là. Chissà che luogo ha tutto ciò.. E se sono i luoghi giusti questi imposti.
Sono circondata da ciò che poi in fondo mi ha sempre fatto paura.
Avvolta in qualcosa che ancora sfuggo e rifuggo e mi sfugge a sua volta nell'importanza. E nell'essenza di questa vita.

Ho avuto paura, questa paura.. che ti prende all'improvviso per ciò che ti avvicina alla verità. Alla tua verità. A un limite o ad una fine. O ad una delle tante morti necessarie per andare avanti.
E ieri ne ho avuta delle parole. Le mie. Scritte in libertà.
Tutto quello che scrivo è vero nel momento in cui le mie dita iniziano a scrivere rapide sulla tastiera. Ho imparato a scrivere, tecnicamente su una tastiera, al giornale. Là dovevo redarre rapidamente per la chiusura delle pagine. Così i miei pensieri riescono a fluire rapidi e ad incidersi sulla "pagina" virtuale. Nell'immediato. Che è il più vicino alla vita possibile. Anche se muoio sempre un po' in ogni parola per riviverne in altre. Subito dopo. In un flusso continuo di coscienza inconsciente. Nel tentativo di raggiungere l'essenza.
Talvolta con errori. Perché la frenesia delle mie parole che sgorgano dall'anima si scontrano con il limite del corpo.
Chissà che non demandiamo all'informatica risorse che sono dentro di noi in fondo.

C'era il mio nipotino questi giorni. Ride sempre e ha la gioia di vivere in libertà che da adulti dimentichiamo. Chissà perché. Dovremmo tornare tutti così e non permettere che il sociale o le regole che vengono da un meccanismo, che non ha niente a che fare con l'amore, ci riducano a zombie. Come diceva Carmelo Bene.
Ho rivisto alcuni suoi video questi giorni. Su youtube. "L'uno contro tutti" al Costanzo Show e altre vecchie partecipazioni. Credo sia stato uno degli intellettuali più geniali del nostro tempo. Insieme a Pasolini. Almeno per me.  Nella novità e nel coraggio di dire cose scomode, che esistono e sono vere, ma che non si ha il coraggio di vedere o ammettere. Costa vita vera vederle.
Le sue provocazioni divertite sono portate con una teatralità irripetibile ed unica. Com'è unico ognuno di noi.
Non dovremmo perdere la nostra unicità per adeguarci ed essere vinti da chi ci vuole morti. Io spero che il mio nipotino non perda la sua unicità e si cerchi in questa vita.
Come zia non permetterò, per quanto mi sarà possibile, che muoia la sua vera essenza e che tenga viva la fiamma del bambino che è in lui. Per divenire un essere umano migliore. Da adulto.

"Perché mai dovrei desiderare di diventare madre?". L'ho chiesto a Fassbinder ieri. E ne ho parlato tanto anche con John. La maternità in senso classico è argomento complesso per me.
C'è chi parla d'istinto. Il famoso orologio biologico.
Sarebbe ora anche per me. Dicono. Ieri sono venuti a trovare il mio nipotino i genitori di Othello. La madre di Othello mi adora. Ora mi ama molto. Ora. Vede una forza e un valore perché in un momento difficile della sua vita io c'ero. Nella presena di spirito. Ma è la mia funzione?
Forse un valore aggiunto. Forse una delle poche cose positive della mia esistenza. Non so cucinare. Ho un pessimo carattere. Rispondo male. Ho orari completamente poco uniformi e poi vivo la notte, perché è il tempo rubato al giorno, le mie passioni e i miei desideri.
E lei per tanto tempo proprio per questo, come tanti, non mi tollerava. Ma c'è stato un momento complesso, legato alla morte, in cui io c'ero. E in quel buio la mia presenza l'ha aiutata. Me lo dice sempre.
 Come me lo dice mia madre. Mio fratello e le persone, le amiche, gli amici che riconoscono questo aspetto. Sono pochi. Sono i più veri. Alcuni mi hanno rincorsa questi giorni in cui non credo più in me. Per scrollarmi. Farmi tornare.
Tuttavia, mi chiedo quale sia il mio senso. Negli incontri. Nelle relazioni. E cosa io possa dare.
Di contro io ho bisogno di essere riportata a terra. Nei miei viaggi interplanetari. Da chi ha occhi diversi.
E mi chiedo: "Può una donna come me, che viaggia altrove, che ha tanti interessi, che non è "calma", che corre dentro e fuori... può una "strega" come me diventare madre?".
L'ho chiesto a Fassbinder. A John tante volte. John mi ha sempre detto che mio figlio viaggerà con me. Che mi vede in movimento, come in fondo sono. Il mio piccolino in spalla.  Sulla mia barca in oceano aperto.
Ma sarà sempre amore? Sarò in grado di amare o per amare bisogna rispettare dei canoni? E un uomo, perché di fare un figlio in provetta come una cavia da laboratorio non voglio proprio, potrà finalmente vedermi "idonea"? O devo cammuffarmi da mogliettina tonda, calma e giudiziosamente infida?

Ma soprattutto.. Perché desiderare di essere madre? Mi sono autoconvinta di essere una madre diversamente abile. O una madre con una diversa normalità. Perché ogni cosa che ho scritto o che ho generato e dato al "mondo", agli altri, come la Mala per esempio.. ecco.. questi, per me, sono figli.
Anche la pagina che si sta' creando in questo momento è un figlio che do' in pasto all'altro. Che potrà avere facoltà di amarlo, rinnegarlo, cancellarlo o sputarci contro.
E ne ho piena responsabilità. Io parto da questo. Dal senso di "non appartenenza". Non mi appartiene questa pagina. Dal momento in cui esce dalle mie dita e dal mio spirito o dal mio "amore", non è più mio.
Non ho alcuna autorità se non la responsabilità di lasciarlo andare nella vita. Nel flusso. Posso solo esserci. In una guida silente e presente, ma senza pretese di plasmarlo. Vive già da sé.
Questa pagina e queste parole hanno già vita propria. Esiste non per me. Ma per sé. O di per sé.
Così un figlio che uscirà dal mio ventre. Non sarà mio. Ma di se stesso. Lo accoglierò e guiderò finché non avrà sufficienti ali e forza per camminare da solo.
Ma non sarà mio. Né getterò su di lui le mie insicurezze, paure, desideri repressi e tutte quelle robe che uccidono chi è altro da me. Preserverò la sua unicità. Potrò essere la sua "levatrice" perenne.
Perché la sua essenza si manifesti e viva come un dono per chi incontrerà.
Allora perché diventare madre se non ho esigenza di affermarmi nel ruolo e pubblicarlo nell'etere? Perché diventare madre se non ho la smania di dire "Ecco: io sono la madre di.."?

Mi sono data ed ho amato Pepe con tutta me stessa, senza volere niente in cambio se non amore e quella maternità.. e dopo anni: "Non ti vedo come la madre dei miei figli".
Sono morta in quella frase.
Mr. D. "non ti vedo adatta. Fai troppe cose. Sei troppo irrequieta..". Othello uguale. Mentre mi amano le loro madri. Ora.
Come se per dare alla luce un figlio sia necessario essere morte e ferme. E' necessario esserlo? Controllabilmente ferme e tranquille?

Perché quindi attraversare la maternità e la paternità?

"Perché se dai a un bimbo, dai al mondo. Non ti toglierà l'arte un figlio, ma la alimenterà.. Non bisogna trasformarsi in casalinghe disperate e assassine. Per le tue smanie e l'irrequietezza, basta darti un po' di Retalin.. ".

Me l'ha detto Fassbinder. E' un uomo. Ironico e in cammino. In una ricerca costante.

"Ma quella donna che ho incontrato ieri a casa tua, non è tua figlia. Annalisa non è tua figlia. I suoi genitori sono morti quando era piccola". Questa frase l'ha detta mia nonna a mio padre. La madre di mio padre gli ha detto questo.
E nella malattia, l'alzheimer, che l'ha presa all'improvviso, ha detto una verità. Mi riconosce in quanto Annalisa e donna. Nel viso che somiglia a quello di quella bambina, ma che è altro. Ha vita propria e non appartiene a una madre o a un padre.
Nel "non ricordo" di ciò che eravamo, esistiamo. Nell'abbandono dell'idea del padre e della madre come proprietari della nostra anima.
Solo pensandoli simbolicamente morti, possiamo rinascere veramente. In una verità.

Perché ci sia il miracolo del dono puro. Donner pour donner, c'est la seule façon d'aimer.
Lo cantava anche Elton John. Nel video ha lo stesso  cappellino di mio nipote. E la stessa espressione libera di chi è felice di perdersi negli altri, nel mondo, nella vita. E di esistere.



sabato 16 agosto 2014

L'urlo del ragno

Sono stata a fare foto in coppia con Fassbinder. Non ricordo la città. Lui è accanto a me. E' una delle tante città. Si assomigliano ormai quasi tutte.
Lui fotografa con le immagini. Io con le parole.
La pioggia ci bagna superficialmente in una similitudine decadente.
L'universo ci piange addosso. Noi ne siamo i testimoni consapevoli. Talmente consapevoli, che dal dolore ne è nata un'azione.
E' buio. Saliamo sulla mia Kia. Abbiamo adottato un ragno. Un cucciolo di ragno. Guido impaurita mentre Fassbinder ride. Anche il cucciolo mi teme. Sta' attaccato al vetro. Quello della portiera dov'è seduto Fassbinder.
Il piccolo mi guarda e mi accorgo che ha gli occhi dolci. Di chi non ha percezione della propria bellezza. Quella vera. In quella fragilità mi quieto e concilio con lui. Non ne ho più paura. E sento la sua forza. Il suo valore che cambia i miei occhi.
Fassbinder mi chiede di farlo scendere. Deve comprare dei rullini. Qualcosa per dopo. Per continuare il nostro lavoro. E' un lavoro. Una ricerca. Quasi una missione di vita ormai.
"Vai a casa con lui. Abbine cura e stai attenta. Ci vediamo lì dopo".

Continuo la mia corsa. Fuori c'è un clima da "Blade Runner". Il mio ragno si agita perché sente gridare. Confusione. Delle luci innaturali fuori di noi. La macchina e accerchiata. Tentano di farmi scendere. Gli altri.
Il vetro della portiera su cui si era appoggiato il nostro piccolo ragno, viene rotto e lui fugge via urlante.
L'urlo del ragno. Non potrò mai dimenticarlo. Quel verso. Non sapevo che anche i ragni piangessero o emettessero suoni così percettibili e viscerali.
Piango. Non so fermarlo e salvarlo. Qualcuno grida: " La strega aveva un ragno enorme!! Velenoso!! E' illegale tenere animali del genere!! Voleva usarlo per ammazzarci tutti..!! A morte!! ".
Risalgo in auto. Non so come, ma riesco a fuggire. Raggiungo il mio nascondiglio. Casa.
Mentre guido chiamo Fassbinder: " Il ragno.. il cucciolo è fuggito.. pensano sia velenoso. Lo uccideranno se lo trovano. Sono stata stupida. Non sono riuscita..".
Fassby ride. "Non preoccuparti. Stai tranquilla. Proprio perché non è velenoso non riusciranno ad ucciderlo. Sto' arrivando".

Dimentico. Ma sono su uno scoglio. A San Terenzo. Sto' scrivendo a Fassbinder. Di un progetto. Un piccolo granchio mi passa tra i piedi.
"Oh.. ti ho sognato ieri notte.. io e te.. che adottavamo un cucciolo di ragno..".
Ringrazio il piccolo granchio che mi ha fatto ricordare.
Fassbinder legge il mio sogno e dice: " Io e te faremo grandi cose insieme. Il ragno è un antico simbolo della creazione, della creatività e del duro lavoro".

Non lo sapevo. A casa m'informo. E' vero. Nell'antica tradizione indiana  allegoricamente lo chiamavano Brahma: il creatore di tutte le cose, il ragno che tesse la ragnatela del mondo.
In alcuni tradizioni, il ragno era visto come difensore del popolo: meraviglioso salvatore.
In certe tribù d'America, era venerato come il creatore dell'Universo.
Solo nel Cristianesimo e poche altre religioni il ragno era associato a Satana e al male.
Forse perché simboleggia anche la femminilità?

C'è un senso. Uno strano percorso o un fil rouge che si sta' sviluppando dentro di me. Tanto da mettermi in contatto, nei miei sogni, con una verità universale.
I miei sogni. Ne ho fatti in passato di forza rivelatrice. Da sembrare folle. Come fossi morsa da una tarantola.

Il cucciolo di ragno che ho sognato era la vera Bellezza? Quella che tutti temono. Anche io inizialmente. Nel sogno e nel reale. Si ha paura del buio che è in noi.
La verità è brutta. Costa dolore e fatica.

"Il suo grido. Le sue urla nella fuga.. non riesco a dimenticarle.. E i suoi colori. Non era brutto. Era difficile perché racchiudeva un segreto.. Se sapessi disegnare te lo disegnerei..".
Dico concitata a Fasbbinder.

"Non preoccuparti. Lo cercheremo insieme".


« If you wish to love and thrive
let a spider run alive. »


mercoledì 13 agosto 2014

Marie 32634

Si chiama Marie Jalinkova. E' nata il 3 marzo del 1910. Donna. Nazionalità ceca. Arrivata ad Auschwitz il 28 gennaio del 1943 e morta il 31 marzo 1943. Numero 32634.
Due mesi. E' sopravvissuta due mesi. Ci sono tantissime foto incorniciate al muro. Ma la sua foto mi colpisce perché è diversa. I suoi occhi hanno una speranza ed abbozza un sorriso. Un sorriso che sa di luce e quella luce mi commuove.
Non so niente di lei. E' una delle tante. Non si sa come sia morta. Di fame? Fucilata? Alla camera a gas? Malattia?
Eppure in quella foto che declama la sua entrata nella strada della morte, lei sorride. E attira la mia "sensibilità" in mezzo ad altre foto di uomini che non hanno più volto. Svuotati e rassegnati. E come potrebbe essere diversamente?
Eppure lei ha una luce. Ha 33 anni. Riesce a fare i 34 nel campo e morire dopo poco.
 In mezzo a tutte le informazioni che mi da' Marco, ai volti, agli indumenti, al tappeto di capelli.. lì in mezzo, mentre cammino con la sua voce e le sue parole, il mio sgomento profondo, le mie domande.. cercano una via d'uscita. Nel sorriso di Marie.
E nel fare questa foto non mi sento "malvagia", ma è come se catturassi una speranza. Per me qui c'è quell'umanità, quella resistenza e spiritualità che mi fa respirare almeno un poco.
Non lo so cosa la spinga a sorridere appena. A tenere una luce nello sguardo. Arriverà da dentro. Da qualche parte. Posso solo fare supposizioni.
Magari l'hanno costretta. Forse, ma in tutta la follia che attraverso e taglio con il corpo, nel mio passaggio silente, ci sono anche racconti di un'umanità straordinaria. Fuori del comune.
Sono in questo luogo per vedere gli estremi dell'essere umano. La mia indagine che nasce da una biografia e che ho portato avanti negli anni, negli incontri fino ad arrivare al teatro.
L'essere umano è un casino. Mi aveva detto John. E forse è vero. Pretendiamo di giustificarlo o razionalizzarlo con la psicologia, la medicina.. con la testa. La logica. Ma siamo fatti della stessa materia di cui sono fatte le stelle.
Shakespeare diceva "dei sogni". Anche. Ma le stelle hanno parti di noi e noi di loro. E viceversa. Veniamo dal caos. Dentro di noi c'è tutto. Il male, il bene, la violenza, la complessità, la superficie. Abbiamo tutti gli elementi per fare si che la nostra non sia soltanto un'esistenza pattinata e patinata, ma una vita che abbia un peso specifico.
Marie. E' una stella tra le foto della paura. Tra gli uomini costretti a subire la violenza della democrazia apparente della paura.

Oggi parlavo con Fassbinder. Gli dicevo che, per quanto assurdo, non viviamo in un mondo tanto diverso. Oggi dico. C'è la guerra in Israele e in Palestina. Ancora. Chissà cosa succede davvero lì.
Quanti civili e innocenti perdono la vita per.. cosa? Religione? Un'idelogia? E non si fa nulla. Non c'è interesse forte per fermare.
Come non c'era allora. "Gli americani sapevano. Avrebbero potuto fermare tutto questo con un bombardamento e invece non è stato fatto nulla". E io che sono lì e piango mi chiedo "Perché?"..
Mentre cammino tra i blocchi, spero sempre che ci sia una luce o che Marco dica che i "cattivi" in qualche modo si siano redenti.. non lo so cosa mi aspetto. Non lo so cosa spero che mi dica.
E' troppo. La logica e il sadismo nazista è talmente ragionato, scientifico, voluto che mi chiude la voce.

Mi sono aggrappata alla foto di Marie per trovare un po' di umanità. Perché le altre, i capelli, i baratolli con lo Zyklon B delle camere a gas, le gerarchie, gli ebrei che dovevano tranquillizzare gli altri ebrei per portarli tranquilli a morire nelle camere a gas.. sono troppo.
Lo dico a Fassbinder che mi si blocca il respiro della scrittura. Eppure lui mi spinge a farlo. A scrivere perché c'è una ragione.
Lo so. Come riconosco la difficoltà della memoria. La difficoltà di dire per esempio quell'umanità familiare e un po' sadica che mi ha mutilata. Non è la stessa cosa, ma l'essere umano non sa amare.
Nemmeno io. Sto' imparando a fatica perché sto' versando lacrime e anche un sangue simbolico.
Mi sto' guardando dentro. Da anni.
L'amore esiste, ma è negli abissi. Bisogna avere il coraggio di vedere. Come quando si nuota nel mare e si tenta di tenere gli occhi aperti. C'è chi riesce ad aprirli per guardare sotto. E anche se gli occhi bruciano inzialmente, dopo ci si può perdere in un universo diverso e meraviglioso.
Bisogna avere il coraggio di tenere gli occhi aperti e tentare i rischio che brucino per vedere la vera bellezza. 

Marie è il primo incontro con l'amore nel lager. Ce ne sono altri. C'è la Resistenza. Padre Komb. Il muro della morte e Birkenau. Devo scriverne. Ma a tappe. Domani.
E' successo troppo perché io riesca a scioglierlo in una scrittura rapida e fluida. Devo prima tradurlo dentro di me.

Ci sono anche gli occhi di Mark che alla fine mi salutano in una stretta di umanità presente. Ci sono uomini che sanno essere belli con la loro presenza. Con i piedi saldi e ben fermi. E la memoria di qualcosa che non si può dimenticare per essere ancora degni di essere delle persone.

As.. " The one who does not remember history is bound to live through it again" ( George Santayana).



martedì 12 agosto 2014

Arbeit macht frei

"Ciao mamma. Sto' andando ad Auschwitz. A questa sera".
"Ok. Divertiti!".

Mi fa sorridere amaramente l'sms amorevolmente ingenuo di mia madre.
Sono in vacanza. A Cracovia. Ogni estate scelgo città diverse per perdermi in parti di me che ancora non conosco. E magari mettermi alla prova per amare meglio e sempre di più.
C'è qualcosa che lega la mia ricerca. In questa estate così strana. Sto' cambiando. La mia ricerca sull'amore, la sua esistenza e la comicità stanno assumendo contorni e valori diversi.
C'è un'umanità che sto' rincorrendo. E questo "amore".. porta domande che a sua volta mi hanno portata qui. Anche ad Auschwitz.

Sono a Cracovia da qualche giorno. Ho preso un appartamento nel quartiere ebraico. Non nel ghetto, ma nel quartiere ebraico. Accanto alla vecchia sinagoga. Il mio appartamento' da' sulla piazzetta storica. Sotto locali, ristoranti e musica. E' un posto meraviglioso per stare e scrivere.
Quando posso evito gli hotels perché sono senza personalità. Mi definiscono "turista". Invece a me piace mescolarmi. Vivere come una persona del posto. Andare a fare la spesa "con loro".
Essere dentro una vita e una lingua altra. Perdere i confini di me stessa per trovarne altri ed avvicinarmi anche solo un po' all'anima diversa che sto' conoscendo.

La sera a Cracovia apro la finestra e sento un sax, un contrabbasso. Suonano insieme. Una donna canta lirica. Risate e un'umanità pulsante, discreta, gentile. Ed autentica.
Ecco: Cracovia è autentica. E per me questo aggettivo è già sinonimo di amore.

Sono sul bus che mi porterà a conoscere un'umanità di cui ho solo letto sui libri di storia. Oppure al cinema e in televisione. Tra le lettere del diario di Anna Frank e di Primo Levi.
Ho paura. Il campo di sterminio di Auschwitz mi fa paura. Sull'autobus che mi sta' portando lì mi chiedo: "Perché non faccio percorsi più divertenti?".
L'autobus mi lascia all'entrata del museo di Auschwitz. Un'ora e mezza di autobus da Cracovia.
C'è il sole. Ho deciso di andare proprio questo lunedì quattro agosto. Non avrei potuto affrontare la giornata con la pioggia. Ho scelto in base al meteo.
Le guide e i forum sconsigliano di entrare nel campo con il brutto tempo. Così come sconsigliano la visita ai bambini sotto i 14 anni e alle persone troppo sensibili.
E di quella sensibilità ho paura. Del "troppo" che mi appartiene. Che fa paura alla maggior parte che mi avvicina ed anche a me.
Eppure eccomi qui. Ad aspettare la guida italiana insieme ad altri sessanti connazionali. Ci sono pure i miei due amici del volo. La coppia omosessuale che era seduta accanto a me. Sul Ryanair flight delle 9h45.
Si tengono per mano e si baciano ancora.

Improvvisamente il tempo cambia. Un temporale fortissimo. Il cielo diventa scuro. Lampi e tuoni. Dalla finestra della sala di attesa vedo la scritta all'entrata del campo "Arbeit macht frei": il lavoro rende liberi.
Sento cose strane. Aspetti conosciuti e sconosciuti.
E ora che sto' scrivendo, mi sento in difficoltà. Perché qualsiasi cosa io possa scrivere di quel che ho visto e vissuto sembrerà ridicolo. Perché detto da me, dopo che sono state scritte pagine e pagine su questa storia.. da me che sono solo una donna che rincorre commedie.. che peso può assumere? Scritto e detto da me?
Eppure c'è un senso. La mia ricerca sull'amore, quello vero e autentico, passa anche da qui. Anche se non riesco a scrivere. Sto' scrivendo a tappe. A fatica.



E' quasi l'ora dell'arrivo della nostra guida. Andiamo all'esterno ad attenderla e per qualche motivo, la pioggia cessa. Il cielo è ancora coperto, ma non piove più.
Mentre metto via l'ombrello arriva Marco. "Voi non siete veri italiani. Di solito quelli veri portano il sole in Polonia". Esordisce così la nostra guida. Chissà se ha tradotto anche il nome.. Magari in realtà si chiama Mark..
Ci spiega alcune cose tecniche. Dove non fare foto. Di non parlare a voce alta e di seguire le sue indicazioni.
Non può urlare. Ha un microfono. Il suo accento preciso, tagliente e vero ci arriva dentro alle cuffie.
Oltrepassiamo il cancello d'ingresso. Quello con la scritta cinica. "Arbeit macht frei". E dice subito che il lavoro era solo un effetto secondario. La scusa per mandare a morire milioni e milioni di persone. Non solo ebrei. Lo capirò. Il progetto nazista, la follia attuata da Hitler e i suoi seguaci era lucida, logica e ben strutturata.

Siamo appena entrati nella residenza della morte. Marco ci mostra le prime baracche. Fatte con i mattoni rossi. Fatte dai "detenuti". La doppia recinzione di filo spinato percorso da corrente elettrica.
Ci dice che  quella scritta, il lavoro rende liberi, è l'esempio della crudeltà e del sadismo nazista. Perché il lavoro era solo una scusa. Per annientare. E non per rendere liberi. Una copertura per rendere regolare l'idea di Hitler di spopolare la Polonia e ripopolarla di tedeschi. La razza ariana.
Ad Auschwitz non morirono solo ebrei, ma milioni di polacchi, russi, zingari e altri detenuti politici di altre nazionalità.
Pochi passi dopo il cancello e il mio stomaco si chiude. Qualcosa, un'emozione, il mio "troppo" sale e si manifesta negli occhi. Sono gonfi di lacrime che escono nel percorso. Mentre i miei piedi camminano su un terreno macchiato di sangue e corpi.
Mentre vengo informata che mentre i detenuti rischiavano la morte nel costruire "qualcosa dettato dal niente", musicisti suonavano. Foto fasulle testimoniano una propaganda perversa.
I tedeschi volevano dichiarare al mondo che nei campi erano mantenute regole di rispetto per l'altro.
Cammino, ma piango. Sotto di me un'manità perduta. Annientata. Non c'è niente di comico lì. Tra le immagini che mi si presentano dalle parole di Marco.

In una delle baracche ci sono capelli. Trecce, ciuffi bianchi, neri, sbiaditi dal tempo e così presenti. Venivano tagliati ai nuovi arrivati e ai cadaveri dopo le camere a gas.
Bambini e anziani erano i primi a non avere l'opportunità di sopravvivere quei due o tre mesi nel lager.
Venivano mandati direttamente alle camere a gas.
" Vi chiederete perché tenessero e tagliassero i capelli dei detenuti.." . Marco ci mostra un tappeto. Quello venne fatto con capelli di esseri umani. Con quei ciuffi esposti prima.
Piango. Non riesco neanche a scrivere. E' talmente reale che non riesco a scrivere.

Non fu solo una guerra contro e per gli ebrei. Fu una guerra contro l'umanità. L'amore. La vita. Il senso dell'esistenza. Malgrado tutto, in quel buio, io ho intravisto racconti di amore. E di un'umanità straordinaria su cui sono in cerca da tempo. L'umano che manca. E che cerco.
Marco ci dice essere nipote e discendente di persone morte lì dentro. Cosa c'entrano i polacchi con la religione ebraica?
Ci illustra le valigie. Ammassate. Con i nomi "Klara","Otto". Gli indirizzi. Perché chi arrivava, arrivava con la valigia e la speranza di potersene andare un giorno.
Altra perfidia nazista. Ingannavano i deportati. Invece le valigie venivano svuotate. Gli oggetti usati e rivenduti o tenuti per sé. 

L'inganno di una speranza di vita. Lo svuotamento. Lo svestimento. La rasatura e abiti a strisce che rendevano tutti uguali. Omologati.

Dopo le valigie ci sono gli oggetti ammassati. Pettini, rasoi, scarpe... infinità di scarpe. E i denti.
E le foto con la data di nascita, di arrivo e morte.
Non ce la faccio. Devo spezzare il racconto. Ho tutto nel cuore. Nella testa.
Ma non riesco a scrivere di getto e di fila. Devo riposare il dolore e capire dove sia stato l'amore in tutto questo male. E perché io sono qui? Adesso. In questo momento della mia vita poi.
Se volevo attraversare il male e la perversione dell'umano, sono nel posto giusto. Se è per questo che sono qui..
Sento ancora le urla. La disperazione nel racconto di Marco e in quelle stanze..
Vorrei finire in un unico scritto. Volevo fare così. Ma non ci riesco. Continuo domani. Devo fare una pausa. Ho le dita e il cuore che non riescono a comprendere oltre.

domenica 3 agosto 2014

Seducendo Cracovia

Fassbinder qualche giorno fa mi parlava di un suo amore. Mi raccontava con la sua delicata verità, passaggi dell'anima di lei che muovevano la sua.
Poi ha detto una parola che mi ha fatto arrestare.. "Con questa immagine ed altre tentava di sedurmi.." . E lì, un po' brutalmente come faccio io, gli ho detto: " Come sedurti?". Con pazienza mi ha spiegato che questa sua amata e amante seduceva. Prendeva l'iniziativa con lui. Probabilmente anche con i passati e i futuri amanti avrà fatto così.
Ho avuto una sospensione. Una pausa con corona. No, non la birra che detesto.. ma quelle che si mettono su un pentagramma e tu puoi stare fermo lì su quella nota finché vuoi. Finché il dubbio non si scioglie. 
"Fassby, io non ho mai sedotto lo sai? Almeno non volutamente". Non ho mai puntato un uomo e ho detto " Sarai mio!". Accidenti no. Devo iniziare a farlo? Ma soprattutto perché mi sono risparmiata questa esperienza?

Vado indietro con la memoria. E nei miei 38 anni ho avuto pochi incontri. Poi sono così presuntuosa che pretendo che tutti mi lascino qualcosa ( e io a loro..).
Le elementari .
Non le conto. Tanto non parlavo nemmeno.

Le medie.
In terza media ho avuto il mio primo fidanzatino. Ma anche lì.. Mi corteggiava lui. Valerio si chiamava.
"Ciao. Vuoi metterti con me?". Mi aveva chiesto durante una ricreazione. "Ah..si. Ok. Ciao" risposi disinteressata. E tac. Facile. Eravamo insieme. Nessuna seduzione. Se non la sua un po' ruspante e primitiva.

Lui era tornato dai suoi amici a giocare a calcio, mentre io probabilmente avrò continuato o a scrivere o a suonare qualcosa o a chiacchierare con l'unica amica che avevo scelto. Perché ero una stronza selettiva. Le "femmine" mi annoiavano. A parte una o due. 
Avrei tanto voluto giocare con i maschi, ma non si poteva. Non volevano. Alle medie poi...
O diventavi la ragazza di qualcuno e ti portavano in giro e scoprivi il meraviglioso mondo dei maschietti... oppure ti mandavano a quel paese. Talvolta ti prendevano in giro se eri un po' racchia o sfigata ( ho passato anche questa parte.. soprattutto i primi due anni in cui mi vestivo da lesbica problematica). 
A me normalmente mi menavano anche. Anche da piccoletta. O mi lasciavano lontano con la bici e poi scappavano. Perché avevo la pretesa di poter giocare con loro. Sfruttavo il fatto di essere la sorella di... Di essere quasi coetanea di Simone per stare nel suo giro di amici.
Solo adesso mi rendo conto che probabilmente devo avere messo mio fratello in crisi e in difficoltà. Come la volta che in colonia con la parrocchia ( oh my God!), a dieci anni, sono scappata dalla camerata delle "femmine" e sono andata a cercarlo nella camerata dei "maschi". Perché ero da sempre abituata a dormire nella stanza con lui.
Il giorno dopo l'hanno preso in giro così tanto che non mi ha parlato per quasi tutto il tempo delle colonie..
Scusa Simone. Ora che stai per fare quarant'anni, ti chiederò scusa per questo. 

Insomma, no alle medie non seducevo.  Valerio venne da me. Ma ha dovuto farmi tenere ferma dai nostri compagni di classe, sotto Natale, a Lerici, per darmi il primo bacio ( senza lingua chiaramente). 
Io urlavo come una matta in piazzetta. Ricordo ancora il mare grigio. Il cielo scuro di un ventidue dicembre. Loro ridevano. E lui mi ha baciata. Gli altri sono scappati. E lui mi ha chiesto romantico: " ti è piaciuto?". 
Mi viene in mente la battuta di Dustin Hoffman in Rainman: " Umido". Ecco si. Umido. E non troppo spontaneo..
Poi in autobus ha messo la sua testa sulla mia spalla e mi ha dato un regalino per Natale. Era un braccialetto di argento. Io non gli avevo fatto niente.. Non ero abituata a queste "pratiche" dell' "amore".
Scese a San Terenzo, casa sua, con gli occhi a cuore e un bacio mandato dalla strada.
Io perplessa sull'autobus. Con il braccialetto d'argento tra le dita. La sensazione di umido e quella costrizione.
Comunque, non lo avevo sedotto. La "storia" finì perché a scuola mi rincorreva per i banchi per farsi dare un altro bacio e io avevo il terrore.
Non poteva durare tra noi.

Il liceo. Il periodo della castrazione segregata.
A quindici anni per magia divenni piuttosto femminile. Mio padre quando si accorse, già nella vacanza tra la terza media e il quarto ginnasio, che in Croazia i ragazzi mi sorridevano e salutavano con timidi approcci invece che prendermi in giro o pestarmi, decise di rinchiudermi in casa con regole ferree.
In mezzo ad altre robe. Arrivai alla prima liceo quasi indenne. Ovvero senza esperienza alcuna. Non avevo baciato ancora nemmeno con la lingua. Ma praticavo costanti esercizi quotidiani, in attesa del grande momento, baciando lo specchio di camera mia. E mi chiedevo sempre quando avrei dovuto tirare fuori la lingua. E soprattutto quale piacere desse la cosa.
Nel frattempo la domenica sera ascoltavo i racconti della mia amica del cuore dell'epoca, Ylenia, che faceva ragioneria e i suoi la lasciavano libera. Pure troppo. Ma non per morale, ma perché secondo me lei un po' di controllo e attenzione l'avrebbe pure desiderata.
Io facevo il liceo classico, ma quello delle sfigate. Stavo in casa a fare finta di tradurre greco. In realtà leggevo Shakespeare e baciavo il vetro.
Finalmente, per non so quale concessione, il capodanno dei miei sedici anni, in prima liceo o giù di lì, riuscii ad andare ad una festa. Fuori città fra l'altro. A Massa Carrara. Una festa organizzata da non so quale radio in mezzo a persone sconosciute. Andai con Ylenia, che non piaceva a mio padre chiaramente, e mio fratello che con alcuni amici mi poteva monitorare da lontano.

Mi ero comprata un tubino nero di velluto. Me lo comprò la mamma. Mi accompagnò lei. Secondo me mossa da compassione perché vedeva i segni delle labbra sullo specchio e la tristezza nei miei occhi.
Quando mio padre me lo vide indossato disse che non mi stava bene. Ero volgare e divenne poi triste.

Comunque io a quella festa mi annoiai da matti. La musica mi faceva schifo. Era pieno di gente. Sudore. Luci e mi facevano male le scarpe con i tacchi. Sarà stata questione di abitudine..
Ylenia era andata non so dove con qualcuno e io mi attaccai ad una colonna in attesa che arrivasse il momento del mio recupero.
Mio padre sarebbe dovuto venire a prendermi alle due o qualcosa del genere. Era passata da poco la mezzanotte. E mi si presentò un tipo. Con il cappello alla H. Bogart e le sembianze di Jhonny Depp.
Mi ha sedotta lui. Facendomi ridere e dicendomi cose che non erano banali per essere uno da discoteca psichedelica.
Non successe nulla. Chiaramente. Terrorizzata com'ero dalla presenza di mio fratello che appena mi vide passeggiare con lui mi disse "Che cazzo fai?!".
Ma gli diedi il numero di casa mia ( non esistevano i cellulari...). Andrea. Mi ricordo ancora il suo nome. Aveva 24 anni. E fu il mio primo amore. Devo dire a John che il mio primo "amore" fu uno più grande di me.
Sedici io, ventiquattro lui.
Andrea mi richiamò il giorno dopo. Mi chiamò a casa. Rispose prima mia madre ( io dormivo). Poi mio padre. Seguì un terzo grado al tavolo della sala.
Mentii sull'età. Feci intendere che era un mio compagno di scuola e non un ragazzo più vicino alla laurea che non a un diploma. Se avessi detto che era pure straniero ( Massa Carrara) sarebbe stata la fine. Mentii. Per salvarmi almeno in quella esperienza. E poi lui mi piaceva.
Uscimmo qualche giorno dopo. E le settimane successive. Si faceva Massa Spezia quasi tutti i giorni per vedermi al massimo un paio d'ore. Ed erano sempre scuse. Studiare dall'amica. Andare in biblioteca.. ecco.
Invece passeggiavamo un po' lontano da casa mia. Talvolta ci baciavamo a lungo in macchina sua. Ed era più piacevole dello specchio di camera mia e del primo bacio umido in piazzetta a Lerici.

Mia madre che mi trovava diversa, magari a tratti più bella, mi chiese cosa mi stesse succedendo una sera. E io che da adolescente non vedevo l'ora di dirglielo ( per me era una cosa bella) le spiegai di Andrea, della sua età etc.. etc..
La vidi preoccupata, ma le chiesi di non dire niente a papà.
Due giorni dopo lui venne da me e mi disse che l'avevo tradito. Che ero una cretina a frequentare uno più grande. Che questo Andrea voleva solo scoparmi.
Non potei più uscire. Mi accompagnava a scuola e mi tornava a prendere.

Scrissi una lettera ad Andrea. Non sapevo come comunicare con lui. E un giorno lo chiamai da scuola e gli chiesi di venire perché dovevo spiegargli.
Non so come ma uscii tra un'ora e l'altra con qualche scusa e in lacrime gli raccontai di mio padre. Si arrabbiò. Strappò la lettera e andò via arrabbiato.
Lui fu il primo ragazzo che baciai veramente. Con la lingua. Che non sedussi chiaramente. E che non voleva solo scoparmi. Non mi sfiorò mai neanche i seni o il sedere. Non tentò mai di andare oltre quel che sentiva che io potessi affrontare. Per una sorta di rispetto.
Il seguito della storia è troppo triste. Ma non fui neanche in grado di risentirlo o recuperarlo o sedurlo. Era il silenzio e la morte della mia esperienza amorosa.

Negli anni successivi, sino all'università al mio Erasmus, fui corteggiata abbastanza. Piuttosto. Allontanavano mio padre e mio fratello. Allontanavo io. Avevo imparato bene.

L'Università. Erasmus.
Finalmente la Francia. Lontano incontrai Pepe. Non lo sedussi. Me ne innamorai all'istante. Nessuno sedusse l'altro. Io semplicemente gli dissi mentre guardavamo un film in francese nella salle de telé che lui mi piaceva molto. Ma che ero un'imbranata totale. Eppure carpe diem era diventato il mio motto in quella fredda città francese.
Rise. E con lui fu tutto facile. I baci con lingua. Il petting. Fare l'amore ( molto tempo dopo) e costruire nella nostra totale giovinezza e inesperienza. L'amore. No. Lui fu l'Amore. L'unico incontrato finora. Perché aveva coraggio. Nessuna seduzione se non il nostro inconsapevole desiderio di condividerci.
Comunque, non ho sedotto nemmeno lui. Non consapevolmente.

Lavorando a Milano.
Othello. Post Pepe. Mi sedusse lui. Con lo sport. Con il corpo. Con il sesso. Pratico e senza parole. Fisico e lontano da me. Piaceva tanto a mio padre.
Othello mi seduce tuttora.

Passato recente.
Mr D. mi ha sedotta lui. Mi vide piangere ad un seminario di canto mentre cantavo Notturno di Mia Martini. E cantare Voce e Notte, versione Mina, in sottoveste alla Salumeria. Forse rimase sedotto inconsapevolmente.
Ma io volevo sedurre il pubblico. Come entità. Non lui.
Comunque mi rincorse per mesi. Tentando di sedurmi con le sue note e il cuore fragile che voleva guarire con me.

Ragazzo. Io ho tentato in tutti i modi di non sedurlo. Inizialmente temevo anche d'indossare i miei soliti vestitini da serata. Tendevo a parlare più come una dietologa che come una donna per tentare di reprimere ogni scintilla di sessualità. Non so nemmeno se lui abbia sedotto me. Forse in parte si. Il suo era un inconscio tentativo di mostrarsi virile.
Per me resta un mistero. Gli volevo bene. Molto bene. Era un filo profondo che mi legava a un bene che nel sesso è arrivato dopo. Con una chiusa immediata. Comunque, no. Non ho sedotto nemmeno lui.

Il futuro.
Credo sia il caso di cominciare. Domani vado a Cracovia.
Iniziamo a sedurre lei..

venerdì 1 agosto 2014

Ragioni per andare a.. letto con la ragazza che scrive

Ho deciso. Scrivo un decalogo. Torniamo indietro però.
Ho fatto due liste presuntuose. La prima è quella delle persone che potrei frequentare. Uomini e donne. Insomma, la prima parte della mia vita è quasi andata. Ora sta' per iniziare la fase della maturità e della consapevolezza. Quindi, allarghiamo gli orizzonti.
Intanto ho capito che io sono "La ragazza che scrive". Insomma, basta girarci troppo intorno. E' la "cosa". Io scrivo. E leggo. Da sempre. E' il mio "daimon". Il mio "genio" come lo chiama Hillman. E se riguardo indietro, si capiva anche da quando ero una bimba.
Perché io le storie le ho sempre raccontate. Si. Anche un sacco di bugie per sfuggire ai miei e a me stessa. Avevo una fantasia che scorreva libera. A fiumi. Anche adesso.
Quando dico che in macchina mi perdo perché mi appaiono "Qui Quo Qua" e tutti gli altri personaggi della Disney, è vero. Tante storie e tante idee.. che arrivano e non faccio in tempo ad afferrarle. Dovrei chiudermi in casa a scrivere.
E lo farei con immenso piacere se non fosse che il reale alimenta la mia fantasia. Perché mi basta vedere due seduti ad un bar per costruire ed immaginare una storia. Un sessantenne in metropolitana per immaginare il suo futuro o il suo passato. Una postura. Un colore dei pantaloni. Oppure uno sguardo malinconico.
Da piccola inventavo sempre storie. Othello si è sempre arrabbiato. Perché in macchina, o in giro, lui spesso mi parlava di cose reali e io.. mi perdevo. Mi bastava guardare una cosa.. Essere rapita anche da una nuvola e dalla sua forma perché la mia mente entrasse in storie.
Othello ha sempre preso queste cose come tradimenti. Anche Mr D.
"Io questo non lo so fermare. Non è contro di te!". Dicevo ad Othello.
Spesso sterzava o mi mandava a quel paese dicendo "Uscire con te è iniziare una conversazione e poi chiedersi dove vai.. mi sento un cretino!".

Magari sono malata. Ma è qualcosa che va oltre me stessa. Vorrei poter avere un registratore sempre con me per poter dire quel che immagino. Quello che gli "altri" miei occhi vedono ed annotarli. Incidere le immagini per non perderle e poi scriverne.

Quindi ora metto per iscritto tutti i validi motivi per cui un uomo dovrebbe uscire con me senza avere paura. Anzi, annoto tutte le valide ragioni per cui uscire con una ragazza che scrive, è solo un valore aggiunto. Diversamente aggiunto.
Lo scrivo qui. Poi lo stampo o lo scrivo a mano, come una lista della spesa. Alla prossima uscita, prima di salire nell'auto del prossimo "pretendente", gli darò la lista.

Ieri sera avevo già l'occasione per il mio esperimento.. Sono andata in Corso Como. In mezzo ai locali della Milano "figa". Quella lucida e splendente. Con amici. Mi ero messa omologata: pantaloncini corti, scarpe nere con il tacco e un top nero. Tutta in nero. come la vedova nera. Solo le mie gambe libere e con una nota di colore. Con i polpacci in tiro per fare vedere la mia virilità.
Semplice e graffiante.
Sono riuscita a perdermi anche in mezzo a quella folla con una mia amica. Ad un certo punto mi sono trovata circondata da un gruppetto di quarantenni / cinquantenni, ben vestiti ed abbronzati mentre nervosa cercavo il mio cellulare...
Avrei dovuto dirlo a John. Ho trovato il luogo con l'età adatta, ma a me quelli lì mi facevano un po' paura. Anche un po' senso. Perché erano troppo abbronzati per essere a Milano in pieno novembre travestito da luglio. Anche i mesi mentono.. Ha piovuto troppo perché la loro pelle sia così colorata..
Ecco se avessi avuto la lista, a quelli che mi hanno chiesto "ti sei persa?" oppure "sei qui tutta sola?" oppure " di che segno sei?".. ecco se avessi già ragionato e fatto la lista.. così.. tutta vestita di nero, come una vedova, sarei rimasta muta e avrei mostrato solo la mia lista.

"Diciannove buone ragioni per uscire con la ragazza che scrive":


1. Alle maratone di Zara, Bulgari, Calvin Klein, Chanel, Dolce & Gabbana, Armani, Fendi, Furla, Geox, Hello Kitty, Lacoste, Louis Vuitton, Max&Co., Moschino, Play Boy, Play Girl, Gay Pride, Play life, Prada, RoccoBarocco Siffredi etc.. etc... preferisce quelle alla Feltrinelli, Mondadori, Hoepli, Libreria dello Spettacolo, del cinema, del sesso, del diverso, del dritto, del diagonale e del gioco;

2. Quando ti lascia lo fa con una lettera bellissima ( e lunghissima.. una di quelle che rileggerai e rileggerai all'infinito e tutto sarà vivo. E tu lì sei un tipo così irreale da sembrare più vero di quel che sei e mostri..);

3. Quando diventerà famosa il post-it che ti ha lasciato in cucina o in bagno o tra le lenzuola.. varrà un sacco di soldi..

4. Se non esce con te, non è perché ha un altro, ma perché le è venuta l’ispirazione per scrivere;

5. C’è un po’ di te in tutti i personaggi dei suoi romanzi. Quelli sfigati ( se le avrai fatto pena). Quelli stronzi ( se è quel che le hai lascito). L'eroe insuperabile ( se per lei sei ancora insostituibile...). Comunque sia: sarai immortale e immortalato tra le sue lettere;

6. Quando ci metti troppo a venire.. non preoccuparti. Lei non si annoia. Aspetta. Ti lascia fare e intanto pensa alla prossima scena del suo romanzo o drammaturgia o canzone. E te ne sarà grata.. perché partorirà ancora..

7. Qualunque siano le tue presunzioni... beh, sappi che le sue sono più grosse;

8. Per il compleanno puoi regalarle una penna, un libro.. ed è felice;

9. Puoi riutilizzare i suoi diari, quadreni scribacchiati.. come spessore per i tavolini traballanti;

10. Non ti chiederà mai di portarla in vacanza a Sharm-el-Sheik, Ibiza o Riccione.. ma a Recanati;

11. Se fa un errore grammaticale puoi rinfacciarglielo per mesi;

12. Sfoga la sua voglia di comunicare scrivendo... non ti farò mai "pipponi" inutili.. Te li risparmierà scrivendo fuoco e fiamme che potrai scegliere di non leggere;

13. Ha la proprietà di linguaggio per chiederti un "cunnilingus" e non di "leccarle la figa";

14. Se si ispira a Proust, sai già che sarà una rompicoglioni;

15. Per sapere come le piace venire, basta rubarle il diario ( o il blog se non ha più paura di "dire" e lo lancia nel mondo..);

16. Conosce così tante storie che se ha scelto quella con te devi essere davvero figo..

17. Ti senti capito... perché per lei sei un libro aperto;

18. Ti può correggere l’ortografia degli stati su Facebook e non scriverà mai "xché" con la x come se fosse una relazione algebrica..

19. Sa come usare la lingua;

Ecco. Fatta. Sicuramente mi verrà in mente altro..

Intanto la mando nel globo. Ma.. dovrei mettere che sono dello scorpione ascendente acquario?

Postino rosso dal cuore rosa.

Ho spostato le sedute. La pioggia di questi giorni mi riporta negli abissi.
C'è una consapevolezza profonda. Un'esigenza o un contatto con parti di me che poi si scontrano.
Vorrei tanto poter essere più leggera. A volte amare meno. Traboccare meno. Risparmiarmi anche di più. Che tradotto nel mio linguaggio significa: adeguarmi a quella modalità da supermarket delle relazioni. Ad una vita a metà. Come arrendermi al patinato su cui scivolo.

Non ci riesco. Solo su un palcoscenico riesco ad attraversare ruoli più comici. Lì lo sono. Leggera. Per non mostrare quello che nel ruolo a volte attraverso.
Poi tolgo il guanto e mi getto nel reale senza protezione. E resto incinta di relazioni che terminano in aborti. E non resta nulla. Non è restato nulla dei feti che ho incontrato. Anche se li ho levati da me con parole d'amore. Per perdonarmi.

Ho tante domande dentro. C'è un'ombra che non riesco a far uscire.
Ho in mente Sabina. La Spielrein. E' una figura che John mi ha fatto conoscere sin dalle prime sedute. La biografia di questa donna come quella di Camille Claudel si sono intrecciate con la mia questi anni. E le ho conosciute prima di conoscere me. Di Camille riconosco l'energia. E il desiderio nell'arte. E una famiglia che l'ha rinnegata. Rinchiusa in un manicomio. A marcire perché la sua diversità le è tornata contro. Come un boomerang.
Di Camille, riconosco il partorire statue come figli. Opere d'arte che restano. Nel tentativo di annullare l'idea di morte. Credo di perseguire l'esigenza di fare arte, in ogni sua forma. Ogni sua forma. Lo ripeto. Per non morire. O morire e rinascere ogni volta.
Quando inizio uno spettacolo. Dal suo studio, alla sua preparazione fino alla messa in scena, è un percorso di amore e di rappresentazione della vita. Esisto lì. In quel darmi ed essere. Ogni fatica. Le ore dedicate. Il sudore. Le preoccupazioni. Le difficoltà e le piccole sconfitte che poi lascio dietro di me, sono morti che generano vite. Vite nuove e in quei passaggi cambio. Divento altro. Sempre altro.
E amo. Presa da un desiderio e una passione che è fatta anche di quotidiano. Essenziale per mettere alla prova e disegnare il mio amore.
Piccole e numerose problematiche legate al reale. Come trovare un luogo. O persone adatte ad unirsi a me e ai miei progetti d'amore. Per generare e rappresentare.
Ecco, forse è questo l'amore. Mi pervade ogni volta che scrivo. Che salgo su un palcoscenico e tento di dare vita alle donne, alle infinite umanità e donne che urlano e tentano di uscire da me. Quando canto o sento un pezzo di musica.
I tasti del piano sono colori. Chiudo gli occhi e ogni tasto per me è un colore diverso. Una variazione. Un orgasmo pieno e infinito di colori e di amori.

Alfie mi ha detto che sono masochista nel provare e provare all'infinito. In una palestra dal pavimento nero. In un neutro in cui il mio corpo si perde e partorisce vite nuove e diverse.
No. Io lì muoio e rinasco in eterno. All'infinito. Perché la morte non esiste. Sono parte di un'infinito che si trasforma. Raggiungo una consapevolezza e poi muoio per riviverne un'altra.
Il mio masochismo è stato ed è quello di andare a perdere il tempo che mi è dato con chi non sa che fare con me. Con chi non ha consapevolezza della vita e allora tenta di raggiungerla succhiandola in altre vite.
Lì muoio. E mi faccio uccidere.

Nell'arte, nasco e muoio in eterno. La paura. E' quella che ci fa credere che siamo finiti. Che esiste un assoluto. Perché dividersi, ed essere diversi nella conoscenza di noi, per poi perdersi nell'infinito è qualcosa che dilaga e sconvolge.
Ma lì finiremo.
Io lo esprimo nell'arte. E' la mia "cosa" per quanto poco quantificabile e riconosciuta sia oggi. Quell'angoscia che avevo da bambina nel pensare all'infinito.. la riempio di senso nel fare arte. Che non è comprensione o recinzione, ma amore.

Da bambina, nel mio letto, non dicevo le preghiere. Mia madre mi diceva di dirle. Ma mi sembrava una ripetizione così priva di verità. Allora chiudevo gli occhi e immaginavo di essere su un prato. Di notte. E di guardare le stelle.
E iniziavo a chiedermi: "Ma io chi sono in mezzo a tutto questo? cosa sono?". Ripetevo queste domande. Che erano le mie domande. "Io chi sono?". Nel nero pece del mio cielo, tra puntini di stelle, mi perdevo. Mi spezzavo e sentivo sciogliermi in qualcosa che non aveva più una coscienza. Tantomeno un ego. Ed ero invasa dalla paura. Anche se oltre quel muro, quella paura, c'ero io forse. Sicuramente qualcosa.
Era come se in quella domanda nell'universo, mi aprissi e sciogliessi in un mare infinito in cui la coscienza era unita al tutto.
Magari in quell'unione stavo incontrando Dio senza morire.

Quando faccio arte. Quando scrivo. Mi perdo. Divento altro ogni volta. Non ho barriere. Né paure. Sono io. Anche se non serve a niente. E' completamente inutile l'arte. E' un concetto che non si può monetizzare. Come il peso specifico di un essere umano. Quanto costa?
Ho incontrato persone con due lauree, musicisti, persone accettate nelle regole reali, ma.. loro moriranno. Moriranno. Perché di quell'universo, del buio dell'infinito hanno paura. Temono di perdersi in lui.
Morirei anch'io se non cavalcassi la mia cosa.
Chissà se sia questa spinta che attira cuori fragili a farmi male. Chissà se, tuttavia, ancora scivolo perché non accetto l'infinito che mi chiama da anni.
Pur vedendo, ancora soffro.

Dopo anni, nella mia relazione con Mr D. ho capito perché John vedeva un po' di me in Camille. Prima di me. Lei si è distrutta. Si è persa e ha distrutto la propria essenza e bellezza inseguendo un uomo o un'idea. Rodin l'ha mangiata. Si è cibato di lei. E con Mr.D stava andando così. Anche se non siamo quelle persone e figure. E l'epoca è diversa. Ma stava andando così. Com'era andata con mio padre.
Mr D. è riuscito a strapparmi un po' di carne. A mordere un po' della mia anima.
Ma sono riuscita a trasformarmi.
C'è mio padre dietro tutto questo. Lo so. Sono tornata tra questi uomini per i miei sensi di colpa. Perché sono fuggita. Ho disobbedito al padre. E alla fine volevo solo riconciliarmi con lui.

Eppure sta' cambiando tutto. L' idea di famiglia e di relazioni. La mia idea. Quella famiglia che ho difeso per anni per non vedere.. Mi ha soffocato. Le mie psicosi, le mie manie sono dovute alla mia famiglia.
Anche se sono grande per smetterla di deresponsabilizzarmi,.. eppure, come per Sabina, da lì vengono le mie nevrosi. La differenza con lei, a parte un'intelligenza ( la sua) che non posso eguagliare, è che i miei mi hanno ignorata per anni.
Ero isterica. Mi chiamava così mio padre quando urlavo in casa perché non mi faceva uscire. O mi chiudevo in camera per sfuggirgli. Senza mangiare.
Aveva gettato via un mio quaderno in cui scrivevo il buio. Dove parlavo di sesso. Lo prese e lo buttò o lo nascose. Ero un'adolescente. Lui lo lesse e lo gettò scandalizzato e preoccupato. Forse preoccupato. Anche moralmente preoccupato da questa femmina.

Non ho avuto la fortuna di incontrare Jung quando forse mi sarei potuta "salvare" senza perdere tempo. Mi dovevo solo semplicemente uniformare. Schiacciarmi. Comprimermi.
Ho gridato e sbattuto porte per anni. Non ho mangiato. Ho scribacchiato. Mi sono fatta male. Tanto male. Alla fine ho iniziato a galleggiare in attesa di una fuga. Che mi ha salvata, ma non del tutto.
Il mio corpo è stato più veloce e intelligente di me. Lui mi ha parlato con violenza. E' per questo che ho incontrato John.

"Ci sono cose che non ti ho detto". Gli ho scritto stasera.
Ieri sono arrivata da lui, sotto la pioggia. L'ho incontrato all'ingresso. Era tutto rinchiuso e incelofanato nel suo impermeabile rosso. Si sposta in bicicletta sempre. Anche con la pioggia.
E' matto come me.
"Sembri il postino in rosso. Non ti avevo riconosciuto".
"Ma io sono anche il postino. Ti stavo aspettando". Ha i pantaloni rosa. E con l'impermeabile rosso non vanno bene. Stonano. Non glielo dico. Ma non è questa una delle cose che non gli ho detto.

In seduta parliamo di Sabina, di Jung. Di amore. A volte ho idea che diciamo la stessa cosa, ma in modi diversi.
Uscendo mi dice: "Scrivi. Continua a scrivere". Certo. Il libro si sta' facendo. Non solo quello.
Nello studio c'è una luce soffusa. Mi accompagna alla porta e mi saluta. Uscendo con la coda dell'occhio intravedo qualcuno seduto al posto di Cuore Fragile tre.
Non sono sicura sia lui. Intravedo uscendo. Qualcosa. Penso sia lui per il ruolo geografico che ricopre da John. Ma non l'ho sentito. Né percepito. Né salutato.
Tornando al lavoro mi dico. " Non è restato nulla". Era quello che temevo. Che sapevo. Ed è la cosa triste degli incontri che tento di esprimere a John.

Questa è una delle cose che volevo dirti John. Una delle. E mi preoccupa. Ce ne sono tante altre. Legate a questa. Come la storia dei cani lupo giovani. Che mista alla tua spiegazione degli ormoni che devastano la coscienza... al ricordo del tuo impermeabile rosso.. Ecco mi fanno pensare a Cappuccetto Rosso, il lupo cattivo e a chi un po' ormai, la favola, se la racconta perché è una spiegazione sicura.
E la responsabilità di noi che siamo "più avanti" ?
Non va bene. Essere così pochi. Non va bene spiegare solo a noi stessi.

"Perché hai detto che Sabina era pazza?" chiedo a John.
"Lo è come posso esserlo io. Ma poteva salvarsi fino in fondo. Non l'ha fatto perché è stata battuta".
"Da chi? Da Jung?"
"Da suo padre".