domenica 27 dicembre 2015

Io scelgo?

La scelta. Scegliere o sapere scegliere o avere il coraggio di scegliere accettando tutte le conseguenze.
Può andare bene o andare male.
Alla fine l'amore questo è? Questa parola, "scelta", è qualcosa che ritorna in questi mesi. Grazie alla Mala e alla fatica che mi porta il progetto, complesso, perché il teatro è un'arte scomoda.. perché mi prende tempo? Fatica? Dedizione? O forse perché mi porta a scegliere. Ecco perché. Ogni giorno scelgo di essere a provare. Ho dovuto scegliere ogni giorno di essere in sala prova. Dopo il lavoro. La stanchezza. Gli affetti che nella maggior parte dei casi non comprendono. E sono gelosi di questa scelta. Non parlo solo di Diego... gli amici, gli affetti come mia madre, Sury, mio fratello e mio padre.. No. Mio padre in realtà no. Stranamente mio padre lo capisce. Un po' di più anche se mi guarda sempre un po' come fossi strana. Come quelle donne ragno incomprensibili e che fanno paura.
Suona e vede nell'arte e nell'esprimersi questa tensione all'infinito che vedo io. Creare è davvero l'unica arma di salvezza dell'essere umano. Si, ma il coraggio di..?
Scegliere. Io scelgo di fare arte e rinunciare al calore di una vita comoda. Al calore di un figlio tra le braccia, a quelle di un uomo la sera, dopo il lavoro. E vado a rifugiarmi in un seminterrato freddo. Tra le braccia di Elena che mi ama e mi raggiunge simbolicamente. Vado lì con il terrore del fallimento anche. Ma poi mi chiedo quale senso possa avere la mia vita se non questo. Se non questo. Quale? Non è utile ed è limitatamente concreta la mia scelta. Non è un palazzo. Né un'invenzione. Né la cura che salva dai tumori. Niente di tutto questo. Tangibile e utile. L'arte non lo è. E io non lo sono. Eppure.. c'è un annullarmi in questa scelta che va oltre i binari del sociale. Non vedo più le relazioni come prima. La famiglia. Gli uomini. Trovo raramente persone con cui relazionarmi. Da cui attingere. Spesso la solitudine è l'unica via.
Ora che tutto è sospeso, come in questi giorni di festa, sento l'angoscia e la solitudine di questa scelta. Che non è ancora completa. Perché non ho chiarito. Non chiarisco con Diego. Non chiarisco con chi mi ama. O dice di. Chissà cosa mai ameranno di me. Non di certo il mio aspetto. O non solo.
Ecco, la scelta non è ancora totale perché sento ancora di dovere chiarire. Chiarire la mia scelta a qualcuno che non potrà mai capirla. Loro restano a lottare o inconsciamente ad amare proprio il mio tentare di andare nell'oblio. Il mio non arrendermi alla banalità? E' diventare qualcosa che non sono che mi fa paura. Lì sento la paura di morire.

Scavo e scavo e cerco sguardi di amore. Anche con la Mala. Lei è forte e fragile nella sua forza. Ho messo in scena e creato un personaggio che indaga. Domanda. Nessuno riesce a rispondere.
Ma lei, il mio personaggio, la mia Mala, ora, o la ami o la odi. O la sposi o fuggi da lei. Impone una scelta.
Nella vita mi è successo spesso. Con Diego a targhe alterne. Con le amicizie o altri uomini che ho incontrato, pure..
Mi sono sempre chiesta cosa fosse. Sarà la domanda? O questa scelta? Vuoi vivere davvero o mentire per rimandare la vita fino alla morte? Questo domando come Mala ora. Ma prima lo facevo nella vita.
Lascio sia lei ora.

Dopo avere letto uno degli ultimi sms di Diego con un'altra donna, gli ho girato la schiena nel letto. E dopo essermi addormentata a fatica ho sognato l'universo. Il mio corpo nudo che si scioglieva nell'universo. Nel buio e tra le stelle. Diventavo latte e polvere di stelle.
E in questa sospensione c'era la musica di Dio. E i pensieri che mi facevano vedere tutto come molto più piccolo o comico effettivamente. Perché l'amore è creazione. Qualsiasi essa sia.
Che amore è questo? Me lo sono chiesta tante volte con Diego ubriaco, con lui che cerca altre donne.. con la sua distruzione che somiglia alla mia. O è la mia. Quella che ancora non mi fa fare la scelta in toto.
La scelta è dissolvermi nell'universo. Ci sono donne e uomini che lo fanno attraverso i figli. Forse.
E io ? Non ho paura di quel buio nell'universo. Girava tutto. E dissolvermi era la cosa più giusta. Il tempo giusto.
Eppure ho ancora paura di portare in fondo la scelta. Che è fatta. In fondo è stata fatta tanto tempo fa.
Dimenticata, ritrovata. Scegliere è il primo verbo dell'amore?



domenica 6 dicembre 2015

Paura della solitudine nell'autenticità

Sono riuscita a dire che sono dentro un ruolo che non capisco più.
Più che a dire, a scrivere. La mia relazione con Diego sta' prendendo forza per lui. E più prende forza per lui e mi lega, più sento la mia verità asciugarsi.
Mi vuole vicina nel suo lavoro, nelle sue nevrosi. Corro da una parte all'altra di Milano per lui e poi per me.
Qualcosa non funziona. Ho sognato la morte. E in quel sogno c'eravamo io e lui. Suo padre. Sua madre. I genitori di lui morti. E tutte le mie parole. Le mie parole.
Mi ha portata in studio con lui. E' strano. Mi ha sempre detto che lì le donne non dovevano entrarci. Nel suo studio. Nel suo lavoro. E infatti ero l'unica donna. Nella sala di registrazione, ha fatto ascoltare alcuni pezzi ai musicisti. Io seduta in un angolo.
Luca Meneghello, uno dei chitarristi jazz più bravi d'Italia, registra un assolo su uno dei pezzi. Lo risentono e sentono gli altri. Fanno i complimenti a Diego per la composizione di una con: "Geniale l'idea dei fiati qui".
Abbasso lo sguardo. Diego mi prende e dice: "Beh, l'idea non è mia, ma di Annalisa". In un orecchio mi dice: "Non prendo più le tue idee.. diamo a Cesare quel che è di Cesare".
In passato è stata una delle lotte. Prendeva le mie idee per usarle per se stesso. Per farsi importante con le altre donne anche. Invece ora il cambiamento. A cui non sono abituata.
Poi parlo con Giuliano per i video da fargli: "Curali tu.. pensaci tu.. mi fido di te". E così gli curo l'immagine. Settimana prossima tornerò in studio con lui a riprenderlo, a decidere che video fare. A curarlo in toto.
Solo due anni fa sarei stata al settimo cielo. Eppure qualcosa è cambiato. Ho partorito. E mia figlia mi sta' aspettando. Lui mi toglie energie e non è mai venuto a vedermi.
Più mi allontano, più mi prende. Come se percepisse ora la mia presenza artistica e il mio femminile, quel femminile come forza anche per lui.
Eppure, la pelle se ne sta' andando. Non è caduta del tutto, ma sotto c'è già quella nuova.
Evidentemente ho ancora paura perché non la lascio cadere. La rimetto su. La vecchia me.
Quella che metteva il desiderio dell'altro prima del proprio. Eppure mi stanco a lavare i piedi di Diego. Ora. E di qualsiasi altro uomo.
Non guardo più il suo cellulare. Non m'importa delle sue donne. So che è un vizio che non passerà mai. Perché ha un'anima dipendente. Così come so che lui mi ama di più. E che sta' diventando dipendente da me. Non fa più niente senza un mio ascolto. La spinta energetica e d'amore della Diva sono io.
Eppure sento di non essere io.
In quel ruolo di assistente/badante, non riesco più a stare.
E lui mi fa scenate di gelosia. Per altri artisti. Mi vuole rinchiudere con lui nelle sue gabbie dorate.
Sento solo una voglia di fuggire e una sorta di tristezza per la mancanza di coraggio che sento ancora.
Eppure io vorrei solo essere sostenuta ed amata per la mia diversità. Da lui come da mio padre.
Ed in questo tentativo perdo la mia essenza perché non potranno mai veramente capirmi. Hanno troppe paure, troppa paura di vivere ancora per comprendere la mia sete. Che fa paura. Fa solo paura ai più.
Così come ancora a me fa paura la solitudine. Di quest'essenza artistica. Perché la maggior parte delle persone, degli uomini è abituata ad amare la sicurezza. La comodità di una persona che si annulla o fa compromessi con il desiderio dell'altro.
Invece io vorrei essere amata solo per la mia autentica diversità. Accettare questa assunzione, implica solitudine. Una grande solitudine.
E ancora mi fa paura.

domenica 22 novembre 2015

Il coraggio della propria diversità

Il coraggio della mia diversità.
E' questo quello che manca. "Lisa, non aprirti a loro. Se ancora non sei pronta, frequentali senza aprirti: non sei una donna, ma un'artista!".
C'è una sofferenza infinita dietro questa incapacità. Perché c'è bisogno di dividere?
La mia vera anima è chiara, è così chiara agli altri e non a me. E' come se dovessi sempre chiedere scusa o inventare scuse per farmi accettare. O uscire di nascosto per raggiungere il mio desiderio. Mentre lui dorme, come quando dormiva mio padre.
E' così scontato e semplice da capire nella razionalità, ma nei meccanismi pratici della vita quotidiana ancora mento. Mento con chi non può vedermi.
E mi faccio del male con loro perché non sono degna di un amore vero ed autentico.
Non c'è protezione.
Diego dice che sono la sua compagna, eppure io non mi sento tale. Cosa significa essere compagna per lui? Gli sto' dietro e curo il suo lavoro. Oppure lavo le sue tazze o i piatti del giorno che non ha voluto lavare perché non sa farlo. Non è abituato. 
Non la so più fare la Maria Maddalena. Non li lavo più i piedi a Gesù. Questa devozione è qualcosa che mi da' un senso di morte. Di chiuso. Finito.
Il CD è metà fatto anche di mie idee musicali oltre ai tre testi che hanno scelto Bungaro e Ivan Segreto.. Dice: "Cosa vuoi di più? I tuoi testi li hanno scelti tra gli altri come i più belli?". Cosa voglio di più?
Non ammetterà mai che sono compagna in quello per lui. Dirà che sono una percentuale, come gli altri.
Poi cerco su google come una stupida di Camille Claudel e finisco su Franca Rame e tutte, tutte hanno la mia stessa sofferenza.. Camille per anni lavora ed ama Rodin. Crea con lui e fanno l'amore in tutti i modi possibili in cui un uomo ed una donna possono farlo, ma poi c'è un maschile che non sa mettere da parte il proprio ego e la paura. Paura di cosa? Di perdere un potere? Illusorio?
Perché nessuno potrà mai togliermi dalla testa che non è l'eccesso di queste donne l'unica colpa del loro fallimento ( se di fallimento si possa parlare per donne come Franca Rame o Camille), ma l'incontro con un maschile che non sa amare la diversità del femminile.
Che un artista possa stare con una donna più semplice, più a suo servizio, è una regola che nasce già da un fallimento umano. Così come che una donna artista debba rinunciare al suo essere donna è un altro fallimento.
Sarà utopia, ma perché rinunciare al coraggio della propria diversità per incontrarne un'altra che dia quell'amore in più? 
Un uomo che ho rincorso per anni ora vuole solo me e mi chiama compagna e dietro questa definizione vedo solo la morte dell'amore autentico.
E' veramente quel che voglio?
Ieri sera ho visto The Lobster. Per quanto sia un film incasinato e pretenzioso nel progetto, l'idea è interessante. Questa costrizione alla coppia.. Queste regole del più forte.. Questo dover essere in coppia per poter essere amato, accettato e curato. Coperture per un sociale che per inglobarti deve riconoscerti. Escludendo il diverso dal proprio mondo di colori.
Se ti assumi il coraggio della tua identità potrai incontrare critiche o incomprensioni, però sarà l'unico modo per poter essere veramente te stesso e vivere la vita che davvero vuoi.
Che è una frase meravigliosa, ma dove si celi questo coraggio ancora non so.. 

mercoledì 4 novembre 2015

Posso darti quello che desideri?

E' nata.
E' stata una giornata lunga. Domenica mattina mi sono svegliata terrorizzata nella mia stanza di albergo. In pieno centro a Torino.
Avevo lasciato i pesci per la scena nel frigo del bar dell'hotel. "La prego. Ne abbia cura. Mi servono per lo spettacolo".
E' comico il mio rapporto con i pesci anche nel reale. Le sono andata a comprare la mattina. In pescheria. " Due orate.. si.. queste qui..". Le ho scelte. Una è Clark Gable, l'altra è per il mio piccolo attore.
"Queste sono favolose in forno.." dice il pescivendolo.
"Ah no.. ma io non le mangio.. mi servono in teatro.. recitano con me..".
Mi ha guardata proprio come se fossi matta. Mi ha anche fatto lo sconto. Anche in albergo. A Torino. Ma non importa. Si, magari un po' lo sono, ma magari meno di chi le mangia.. E' sempre tutto relativo. Come i concetti che dico nel mi spettacolo.
Vado in camera. Sono un po' nervosa. Dormo male. Ho il reflusso. Come le donne incinta.
La mattina mi alzo presto e vado a correre. Una doccia veloce e poi lascio la camera.
Dopo aver pagato dico: "Ho le mie orate nel vostro frigo bar. Le ho lasciate al suo collega ieri notte".
Il tipo alla reception risponde serio e rispettoso: " Ah si.. certo.. gliele prendo subito". E me le porta impacchettate, come se fossero gioielli. E lo sono. "Bravo.. - penso -.. non ti ucciderò..". Ragiono già come la mia Mala.
Arrivo in teatro in orario. Elena è iperattiva come sempre. Un po' nervosa, ma carica. Io sono più trattenuta. So bene che vedermi così la terrorizza, ma mi sto' concentrando. A mio modo.
Facciamo le luci. Poi la generale. E nel preparare la scena mi mette i pesci che ha recuperato in una pescheria. Completamente marci. Sono solo per la generale. "Per stasera avrai cinque pescioni da dare al pubblico. Li cuciamo insieme dopo".
La generale va. Io trattengo. Per esplodere in serata. Sono terrorizzata. Devo tenere da sola il pubblico per un'ora. Non sono mai stata da sola in scena. Così tanto.. E' un salto. Un bel salto.
Finita la nostra prova, lasciamo la sala alla compagnia dopo di noi.
Andiamo in un caffè. Elena parla e parla. Agitata. Io sono trattenuta. Sempre. Ascolto. "Lisa, ma tutto ok?".
"Si, sto' cercando la mia linea di basso.. il dolore sotterraneo su cui improvvisare per un'ora".
Torniamo in teatro. Cerco una stanza in Cavallerizza. E dopo uno spuntino iniziamo il training. E lì lei capisce che ci sono.
Mi vesto, mi trucco, mi pettino. Poi lei porta i pesci. Sono enormi. E puzzano. Tantissimo. Ho quasi il vomito e penso al pubblico: "Come reagirà?".
Io mi abituo alla puzza. Alla puzza d'amore. Alla puzza che tutti nascondiamo nella nostra borghesia.. E cucio i pesci con il mio filo blu. Mi basta poco e sono già lei. Mancano 20 minuti allo spettacolo. Scendiamo in teatro. E prepariamo la scena. Metto Clark nel mucchio di pesci puzzolenti e avvolti in una rete e nascondo il pesce per il piccolo Davide.
Poi Elena mi lascia lì. Con uno dei miei pesci enormi da cucire. Entro in me ed inizio le domande con cui aprirò lo spettacolo.
Elena apre la porta del teatro ed entrano gli spettatori.. Come un leone mi butto su di loro..
"Posso darti quello che desideri? Vuoi farti di me? Dei miei odori? Io sono un'innocente?". Alcuni ragazzi ridono. Uno mi risponde. E' il primo con cui interagisco e gli regalo il pesce. "E' ancora viva". Lui lo prende e resta a fissarmi. Seduto. Incredulo e catturato.
E' iniziata... Distribuisco gli altri pesci. Cerco chi ha paura. Chi non vuole essere guardato. E parlo con loro. Piango. Rido. Faccio piangere e poi ridere. Li abbraccio. Gli parlo in un orecchio. Ad ognuno. E poi torno nei miei monologhi. Ai miei coltelli. Al sangue e alle mie vittime.
E' una montagna russa. Per me. Per loro.
Non vola una mosca. Sono con me. Io non sono più io. Faccio l'amore con loro. Mi do' a loro e loro mi prendono. Mi vogliono. Assetati del sangue vivo che metto lì. In scena. Senza paura. Sono nuda.
Elena in regia anche è catturata e dimentica una luce.. Ma andiamo avanti. E' magia. Dio mi sta' attraversando.
E' l'ultima scena. Buio. Poi luce. Io ed il bambino. Con il pesce e la domanda.
"Posso darti quello che desideri?". E il piccolo mi guarda. Sono madre. Lei è nata. O rinata. Tra i pesci morti che ricucio.
E l'infanzia violenta che denuncio. Non ho più paura.




martedì 3 novembre 2015

L'amore in più

Ci sono cose che non so dirti
Sarà questa fragilità
O questa paura di vivere
Che tanto ti fa ridere
E questo "amore"
Che mi fa arrabbiare
O sarà un bimbo che grida
Appena arriva il buio.
E ti cerco nel sonno
La mia testa sulla tua schiena
Le mie dita risucchiate
nella tua calda creatività
lì mi nascondo ogni notte
Per trovare l' amore in più.
Che manca nel mosaico
della mia umanità.
E' facile scrivere.
La nostra canzone
Un figlio da ascoltare
quando io non sarò più lì,
o tu qui.
E lei viaggerà libera
Ma è facile scrivere.
E le parole sono parole.

O solo parole.

lunedì 19 ottobre 2015

Non sono mai stata protetta

L'uomo senza dubbi.
Sto' facendo le prove per uno spettacolo che non amo. Colori e faccine. Finto. Tutto finto. Eppure non so liberarmi. Non so dire: "Mi fa cagare!". E mi annoia anche. E l'arte non da' soldi e non annoia. Ma tocca, spaventa, ti ritorce dentro.. le viscere iniziano ad esistere e a svegliarsi.
Invece in questo spettacolo mi sento in gabbia.
Poi gli scrivo.  E' lontano. Non so se vorrà vedermi. Là a Barcellona. La città del sole. Della cattedrale vertiginosa. Ogni volta che ci salivo sopra sentivo la testa girare, e l'aria sospesa nel mio corpo, con il vento che penetrava e l'amore dei suoi occhi. Pepe. L'uomo per cui non ho mai avuto dubbi. Con lui su quella cattedrale toccavo Dio.
Così vado da lui. Lo incontro. Cerco il suo conforto anche se ci siamo lasciati da dieci anni. Lui è freddo. Come da quando ha deciso che la separazione affettiva e "dimenticare" fosse l'unica soluzione. Al dolore. Ma sento che quella è paura. E allora cerco l'origine di quell'amore.
Non ho mai avuto dubbi per lui. Di amarlo senza condizioni. E che fosse giusto.
Non ho risposte. Ho solo la certezza che è stato così. Che fu così.
Ma poi ho un dente che mi fa male ed Elena mi cura.
Quando mi sveglio ci sono solo io nel buio. Il corpo di un uomo altro da Pepe. Poi resto sola.
Dormo sola. Nel mattino che mi accoglie. Sono solo sogni che rispondono ai messaggi di Diego di scuse.. Scuse su scuse in un momento in cui non ho più forza per lui.
Promesse.. promesse. Mentre cerco conforto nel corpo di un altro. Da lui e da me.
Me ne sto' andando definitivamente da lui e mi manda composizioni per un CD che sta' tentando di partorire da quando lo conosco.
Ma in fondo non gli importa di me. Ha solo paura che io non sia più di sua proprietà. E che possa splendere senza di lui. 
Il suo volermi controllare sta' diventando sempre più penalizzante. Mi sta' asciugando.
Venerdì sera dopo le prove ancora.. i suoi attacchi nell'alcool. E il suo tentativo di farmi sentire malata perché faccio arte e teatro. Perché sto' diventando sempre più indipendente da lui artisticamente, più brava. E non ho paura degli insuccessi come li ha lui. Perché per me l'arte è vita. Per lui affermazione di un "ego" ancora. O chissà cosa..
Non ho paura della frustrazione di non apparire sul cartellone di un "grande teatro" dal momento che il teatro in quanto tale è morto. Nei grandi teatri passano lo specchio di ciò che la società vuole ora. O la scia di un mercato che intrattiene, ma non prende e non da'. Passa per la televisione e per una comunicazione che non parla. Il dolore è sotto la tecnica e immagini che usano sempre più tecnologie dietro cui ci si nasconde.
E per me il teatro è l'umano che parla nella sua nudità ad un altro che vuole ascoltare la sua verità e la sua ferita.

Ho imparato ad attaccare e ad usare le parole di Diego come motivi per amarlo sempre meno. Sempre meno. Come è successo con Giovanni. Con Mattia. E con tutte le persone a cui ho dato una sincerità imperfetta, ma onesta. Chiedevo banalmante di comprendere l'incomprensione della mia diversità.
Ma almeno sto' imparando ad amare meno chi mi fa del male. Perché chi ti ama, resta. Davvero.
Per anni ho compreso. Accettato. Non mi sono mai realmente arrabbiata. Ho solo covato un rancore latente per mio padre. Nel silenzio. E per mia madre che non c'era.
"Io non sono mai stata protetta ?". Dice così Paolo.
Era la frase di un sogno. Tento di divagare, ma poi piango. Si. Sono diventata io protettiva per raggiungere la protezione materna che non poteva più esserci. Ma non sono mai stata protetta. Il possesso e la gelosia di mio padre non era protezione. Erano le sue paure. Era lui su di me. L'assenza di mia madre era la sua malattia. Sono solo fuggita e ho rimpiazzato concetti, come la protezione. Dimenticandomi di me. Di trovarmi. Di capirmi.
E poi torna l'evento. E piango. "Voglio solo dimenticarlo. A cosa serve? So che c'è stato. Che mi ha fatto del male e mia madre non c'era a proteggermi da lui. Ne ho parlato tanto anche nell'altra mia analisi. Ma non serve. Ci sono ferite che restano. Possiamo solo conviverci o tentare di farci meno male e trasformare quel dolore". Eppure piango. Perché penso allo scempio che ho fatto della mia vita. A quella bimba che ancora grida.
Fare i genitori è la cosa più difficile del mondo. Si pensa di essere padre e madre in base al ruolo che viene tramandato. E si ama secondo quello che la madre, la nonna, la trisnonna nei secoli dei secoli ha tramandato. E invece è più complesso o libero di così. Ogni figlio è una vita a sé. Diversa. Ed unica. Non la nostra proiezione. Non il rimando dei nostri insuccessi. O il tentativo di riappropriarsi di noi attraverso la vita di un figlio.
Dovremmo essere così evoluti da sapere ascoltare. Di tenere come un tesoro la materia viva e nuova tra le mani e guidarla nella sua vita indipendente.
Come fa uno scultore con una sua statua. Come fa uno scrittore con una pagina bianca. Come tento di fare io con lei. Per toglierla da me. Partorirla e lasciarla vivere diversa da me. Senza un controllo. E amarla nella sua diversa imperfezione.

lunedì 12 ottobre 2015

La polvere della verità

Sono a casa. In Liguria. Nella casa dove sono cresciuta. In via Giovanni Bosco. Era una casa bianca che mio nonno aveva comprato appena in costruzione.
Mi piaceva quella casa. Anche se non avevo una mia camera, ma dovevo condividere gli spazi con mio fratello.
La mia scuola di musica era venuta anche a Spezia. Ci andava mio padre e poi per qualche strana ragione aveva iniziato ad andarci anche mio zio.
Piove. Sono grande già, l'età di adesso, ma è come se fossi tornata indietro nel tempo. Ci sono luci rosse nel cielo. Il cielo rosso dei tramonti e delle albe. Io ho un vestito bianco e sono a piedi nudi. In casa giro sempre a piedi nudi.
Ma anche in Liguria. Mi piaceva da bambina. Mia madre dal terrazzo mi dice di andare a comprare qualcosa dalla lattaia. E io non so perché ma ho paura di vederla. Dopo tanti anni.
Tuona. Avevo sognato tanti anni fa un diluvio, il diluvio che poi venne a Vernazza.
C'è sempre quest'acqua. Tanta acqua.
Rientro con un pacchettino e vedo mio zio uscire dal portone. Ora ci abitano loro lì, ma io sono confusa ancora. Tra passato e presente. Ha una borsa e mi dice che va anche lui lì. Che avrà la mia insegnante di canto in Nam. Gli dico di dirle che è mio zio. "Magari ti tratta bene".
Poi vado con lui. Per seguirlo. Aiutarlo. In questa mia modalità di essere madre dei grandi.
Protettiva. Non sono mai stata protetta.
Siamo nella sala attesa della scuola. Ci sono tutti gli insegnanti. Ma la sala d'attesa è in realtà quella di un albergo.
Devo salire. Nell'ascensore ci sono due uomini. Uno di questi è un noto regista e attore. Mi sembra Verdone. E la cosa mi fa ridere. Ha un cellulare e mi chiede un aiuto per alcune applicazioni.
Resto alcuni giorni in quell'albergo. L'amicizia con il regista diventa sempre più stretta e di nutrimento reciproco.
Ama prospettive diverse. E m'invita un giorno a stare fuori. Su dei letti sospesi. Sospesi su dei carrelli. Usciamo dalla finestra per raggiungere i letti. Ognuno il suo letto.
Ho sempre avuto paura dell'altezza. Ma lì con lui no. Poi lui si avvicina e mi fa vedere altre cose al telefonino. Ci sporgiamo un po' e io ho paura che lui cada. Ma sento che lui non ne ha. E mi tranquillizzo.
Poi mi sdraio e d'impeto faccio un movimento vivace e repentino. Uno dei miei. E il mio letto sospeso si muove e sbatte contro il suo. Lui cade e rimbalza.
Io vedo tutto. Dall'alto vedo tutto. Ma lui non so neanche più se sia un lui, ma una lei. Eppure io la vedo come fosse un uomo.
Lui è a terra. E' vivo, ma non sa più se riesce a muovere le gambe. Arriva l'ambulanza. Mi sento osservata e come al solito ho paura di avere rovinato tutto. Mi chiedo cosa accadrà. Se perderò il sogno.
Il buio e mi risveglio in una casa calda. C'è il suo amico che ride. Io sono lì e vedo che a letto c'è lui. Il regista. Che però ha un altro volto. Non è Verdone è un altro uomo, ma è più asciutto. Ha gli occhi diversi.
Vado a letto da lui. Lo abbraccio. Piango. Lui ride e mi abbraccia. Sento tanto calore. Amore. Comprensione. Non l'ho fatto apposta. Lui lo sa.
C'è questa luce rossa. Di un fuoco. Il rosso di qualcosa che avvolge. Di un amore che cerco in una comprensione.
Mi addormento tra le sue braccia. Poi capisco che quella casa è un ospedale o una specie di. Ci sono donne vestite di bianco. Tutte giovani. Più o meno giovani.
Arrivo e con me c'è l'uomo, il regista che ora è in piedi. Guarito. Cammino. Loro non dicono nulla. Non ci sono parole. Solo suoni e colori.
Loro alla vista dell'uomo diventano serie. Vanno a prendere delle scatole. Dentro c'è una polvere bianca.
Chiedo cosa ci sia dentro e loro mi rispondono che sono le loro ceneri. Lì dentro c'è la loro verità. Quello che vedo io, quelle donne giovani che ridono vestite di bianco sono solo proiezioni. Ma non esistono.
Arriva anche un'attrice, Sandra Milo. E' giovane. "Devo anch'io prendere le mie ceneri". Capisco che per lei non significa scomparire. Le svuota su di sé e diventa vecchia. "Sono io questa. Non più quella". E va via più consapevole. Meno leggera. Non triste, ma più consapevole.
La maggior parte della altre donne scompare. Scompare appena si getta addosso le polveri.
Resto sola. Non c'è più neanche l'uomo.
Sono in strada. A Spezia. Piove. Con una donna che mi conosce, ma non so definirla. Piove. E' notte.
Entriamo in un auto. Poi ricordo un dolore al braccio e mi sveglio. Nel buio. 

venerdì 9 ottobre 2015

Il discorso dell'altro

E' un problema di autorizzazione alla mia autenticità. E se non mi autorizzo, se non la autorizzo, non arriverò mai alla verità in arte.
Eppure ci sono quasi. Se non fosse per queste relazioni che ho paura di perdere. Ancora.
Mi siedo di fronte a lui. Il suo studio non mi piace. Ha poche cose. Ma lo riempio subito con tutto il mio immaginario. Che è immenso, infinito.
Non mi annoio da sola. Sono capace di passare ore e ore e ore, una vita intera con le voci che spuntano di continuo da ogni mio poro.
E' un'infinita massa simile ad un blob chiaro e informe che cambia. Si plasma.
Mi siedo. Ha dei libri, ma non riesco a leggere i titoli. Uno è aperto e lo chiude subito. Sottolineato in modo ordinato. Io, i miei, li mangio.
Questo maschile. Il mio discorso devo portarlo sempre ad un essere umano biologicamente maschio.
Chiude il libro aperto e nel farlo cade la matita. Per raccoglierla mi scontro con la sua mano.
Sono in imbarazzo. E' strano. Con John non avevo paura del contatto fisico. E con lui si.
Non so come si chiama. O meglio, si, ma non lo chiamo. Lo dimentico ogni giorno. E questa, per me, è una novità.
Parla a voce bassa e poco. Molto poco. Ogni tanto mi ferma e mi fa riflettere sulle parole che percepisce abbiano un significante esatto.
E' la mia autenticità che tento, finalmente, di puntualizzare. Si, ma qual'è?
Che non sono una donna per bene. Non me ne è mai importato niente di esserlo. Da sempre. Ho sempre trovato noioso essere una brava ragazza, nel senso comune.
Ero tutta nervi scoperti con questa pretesa di amare ed essere amata. Ma di un amore che fosse autentico.
La prova della mala, l'ultima, è andata bene. Ho sudato. Ho tirato fuori tutta la mia energia toccandomi la vagina con il pesce. E urlando questa maternità che fa solo aborti. Come posso generare vite se non sono autentica ancora?
Racconto di Diego. Sempre lui. Solo lui. Chissà se lo amo davvero. Me lo sono chiesta.
Siamo andati a cena. Al giapponese. Lo fa per me. Perché mi piace. Quello bello, vicino casa sua.
E sono arrivata tardi. Ma lui mi ha aspettata. Lo vedo che mi ama. E lo diverto.
Ma finita la cena, il tempo di portare la macchina ad un parcheggio, e lui, nei dieci minuti tra il ristorante e casa sua, si è già fatto i suoi cicchetti.
Sotto casa, il copione. Io mi arrabbio. Saliamo da lui. Lui mi dice mollami. Io urlo che ho bisogno di un uomo diverso. Che è uno stronzo. Lui mi dice che con il teatro non ci campo. Che con la musica è diverso. Che sono una fallita con l'altra regista arrivata dalla Russia apposta per portarmi via da lui! Gli dico di ridarmi i miei pezzi, le mie canzoni e che non voglio più comparire nel suo CD.
"Stronza! Mi ricatti?". SBAM! Il mio schiaffo in pieno viso! E lui, in mutande, che mi guarda innamorato mentre gli dico che è stronzo lui a ridursi così a 51 anni.. che se non gli importa di me, almeno di sua madre!
Lui non reagisce mai ai miei schiaffi. Fuma. E in calzini e mutande, alla mia seconda provocazione, "Ho bisogno di un uomo diverso accanto!", lui dice: " E io ho bisogno di una donna che mi protegga! Che mi tiri fuori!". E me lo dice disperato, in mutande e calzini, guardandomi con gli occhi rossi dall'alcool. E mi viene da ridere.
Mi sta' dicendo che lo devo proteggere, seminudo.. e io non so più come fare. Mi spoglio anch'io. Mentre lui dice: "Amore, andiamo a letto?". E io rido perché sono tutta nella mia comica, consapevole di esserci.
Poi lui mi chiede di sposarlo. E la comica avanza. "Ti mantengo io. Tu scrivi le tue cose. Facciamo un bambino, ogni tanto fai un po' del tuo teatro e poi segui me. Viviamo in Liguria finché il bambino non ha dieci anni e poi veniamo a Milano".
E io rido. Ma perché da' per scontato che io partorisca un maschio e mi vada bene rinchiudermi in Liguria vista mare con lui?
Poi andiamo a dormire. Arriva anche Jack. E sono nel mezzo del letto, con Diego a destra, Jack a sinistra. Che mi schiacciano. E russano.
Abbraccio Diego. Nella sua nudità. Sono più forte di lui. Lo sa. E probabilmente mi ama di più. Più di quanto non sia disposta io.
"Sei la cosa più importante che ho - mi dice - ma ho questo problema compulsivo.. ma ti amo".
La mattina dopo facciamo l'amore. Poi lui parte per la Liguria e mi lascia a casa da lui. Deve andare giù per arrangiare i tre dischi di Matteo. Sta' con lui e l'altro chitarrista chiuso tre giorni in casa a lavorare.
Mentre lo saluto dalla finestra mi urla: " Ho bevuto un po' ieri eh?". E poi se ne va.
Resto sola nella sua casa. Che mi piace perché c'è il suo piano, la musica, i suoi cd. Ma mi terrorizza il suo discorso. Che è il discorso dell'altro. Non il mio. Eppure mi tiene lì ancora.
In questa paura di perdere le mie paure. E dire al mondo che io sono mala, non sono una donna per bene.
Non voglio essere amata per ciò che non sono. Ma per ciò che sono, per il mio discorso di donna, che non è quello di una donna per bene, quella che mio padre voleva che fossi, quella che tutti gli uomini cercano in fondo.
Non voglio chiedere più perdono a me stessa e agli altri di essere così: ossessiva, altrove, infedele, mutevole, totalmente libera, presuntuosa, selvatica, a volte materna con esseri fragili e vanitosi.
Voglio scrivere e dedicare le stesse parole a uomini diversi e dire ogni volta: è la prima volta..
La prima volta per il mio discorso.

lunedì 5 ottobre 2015

La mia normalità è la mia autenticità...

...E non è quella di mio padre.
"Non correre Annalisa". "Non mettere questo". "Non sta' bene questo".
"A me gli altri, l'altro non interessa. Me ne fotto dell'altro!!".
Lo dicevo alle medie, al liceo.. poi mi sono adeguata a suon di punizioni, reclusioni, soffocamenti.
Ma ero saggia. L'altro erano le paure di mio padre nell'avere tra le mani una forma informe che tendeva a trovare una forma autentica, magari anche brutta, ma autentica.
Ieri sera con Elena abbiamo lavorato la bruttezza della Mala. Sta' tentando di portarmi in un'autenticità che grida e lotta con questa Daurine normale e senza verità.
Le prove erano alle 19. Lei è arrivata un pochino dopo. Io urlavo in mezzo alla strada con Diego al telefono.
"Non ti permettere più di chiamarmi cretina o di dirmi quello che devo o non  devo fare! Quello che devo scrivere o meno!".
Sembra lo stesso copione.. lo stesso.. Come urlavo con mio padre, in casa..
"Avevo il vizio di sbattere le porte da bambina se qualcuno mi faceva arrabbiare.." dice ridendo Elena. E' una battuta della Mala.
"L'avevo rotta io.." continuo io..
Rompevo maniglie, cose... così faccio con lui. Con Diego.
Ma non "rompo" lui. Rompo cose. Oggetti. Mi sfogo su ciò che è inanimato. L'unica entità vivente ed animata che uccido è me stessa, parti di me.
Elena si gira una sigaretta. Ride e dice: "Lisa, ma quando lo lascerai?".
Lui fa sempre così. Mi allontano. Ci ritroviamo. Poi appena inizio a prendere il volo artisticamente o sente odore d'indipendenza, mi da' una zampata per buttarmi a terra.
"Alla fine lo hai idealizzato. E' un mediocre. Vuole una vita mediocre. Non potrà mai cambiare".
 Per un tempo è stato interessante, per la mia crescita. Ma ora. Ora non esiste niente d'interessante a livello affettivo se non... me.
C'è un universo sotto. Giù. Appena sopra la mia vagina, le mie ovaie, che nascondo. E' quella verità e autenticità che terrorizzava mio padre.
"Non dire quello che pensi". La negazione del sé.
Probabile che sia questo "Sé" laggiù. Tra la mia vagina e le mie ovaie a voler uscire.
Sono insicura. Piena di nevrosi e scivolo nell'autismo a volte.
Elena ride. Suresh si arrabbia e mi odia. Gli altri da me, mi vedono strana. Ho paura di tutto. Di me. Continuo a pensare di non valere niente. Distruggo ogni cosa che costruisco. Devo solo avere la fortuna d'incontrare qualcuno che mi ami più di me per non buttare via tutto o aspettare la fine.

E' domenica sera. L'ultima nello spazio di Giacomo. Stiamo provando nel suo spazio da una settimana. L'ho trovato grazie ai ragazzi di IT Festival. Lo spazio è carino. Ci sono due pianoforti. E il suo studio con scritto "Private", ma siamo entrate io ed Elena. Come due bambine. Un mondo a sé.
Giacomo è un insegnante dell' Accademia di Brera.
Ci siamo innamorate del suo spazio. Ci sono scatoloni con alcuni libri scritti da lui: "Gli uomini non possono essere violentati".
E poi un altro libretto che nasce come rilettura della Tosca. M'incuriosisce. Ha gli occhi blu. Avrà quasi cinquant'anni. Forse è più giovane di Diego.
Io ed Elena siamo alla ricerca di uno spazio. Una compagnia di Sesto ci ha proposto di condividere a 250 euro lo spazio con loro. Ma a me non piace molto. Neanche ad Elena.. Sembra un po' un crocevia di arte al chilo. Troppa gente.. corsi di kapoeira, yoga, concerti rock per rianimare il quartiere e teatro sociale. Che cacchio è il teatro sociale? Sono diventata intollerante ad ogni forma politica e psicologica dell'arte. L'arte e arte. Non c'è politica o psicologia. Ma solo bisogno ed esigenza di...
Spiegherà chi non sa amare. Per proteggersi.
Palesiamo a Giacomo il nostro desiderio di restare a provare nel suo spazio e condividere con lui l'affitto, ma non è aperto. Ha paure. Si segna in agenda. Scrive sul tablet.
Elena voleva sedurlo, ma io avevo capito subito fosse gay. Eppure ha quella sensibilità artistica che mi fa capire che quello, il suo spazio è il posto giusto.
Ma vuole troppi soldi per condividere un affitto. Gli scrivo che per noi è troppo.
Due giorni dopo mi risponde dispiaciuto. E mi chiede di poter assistere ad una prova. Si presenta questa sera. "Esco dal cinema e vengo a vedervi".
Io sto' provando con la mia collana. L'orata è solo un pesce finto ora. Perché quello vero ormai puzza troppo e non riesco ad entrare in sintonia con lui, sin nell'osceno.
Così inizio.. Giacomo si siede e mi guarda. Anche Elena. La mia bruttezza in scena va oltre le parole. Ma le parole sono ancora così forti.. M'interrompo. "Scusa Giacomo, ma sto' cercando ancora..".
Lui si toglie le scarpe e si mette al centro e mi fa vedere due cose che potrebbero cambiare. Con tatto poi mi dice: "Ma il testo di chi è?".
"Mio!" rispondo con orgoglio..
"Molto bello", dice. E poi si apre. Dice che sta' per diventare padre. Con il suo compagno. Che la madre è un utero in affitto. Un utero americano. E i gemelli stanno per nascere a novembre. Come nella mia storia. Prematuri. Pare nascano prematuri. Come la mia mala.
Nel mio testo parlo del mare nero.. di maternità, d'infanzia e di una diversità. O di una normalità che tenta di essere autentica anche se non risponde alle regole.
E Giacomo ha gli occhi rossi. Anche se la mia interpretazione non è ancora perfetta, lui ha colto. Si è ritrovato. In tutto quel mare, in quel novembre imminente, in quella violenza. Che forse è stata anche la sua.
"Ragazze, io vorrei non perdervi. Mi piacerebbe avervi qui e che continuaste qui il vostro progetto.. quindi ve lo lascio al prezzo che riuscite a pagare. A me fa piacere che qui resti l'arte".
Ci abbracciamo. Ci siamo capiti o trovati. Ci augura buon lavoro e se ne va con garbo e gentilezza.
Mangio due pesche di fila. E mi fa male lo stomaco.
"Lisa, vedi... ma smettila di dirti che non sai fare.. di giustificarti... di non riconoscere la tua propria forza.. siamo state brave. A lui è piaciuto il lavoro. Ha sentito un'onestà.. ".
Si sono contenta. Usciamo. Divento ansiosa.
Accompagno Elena a casa. E prima di lasciarla penso: "Ma c'è il riscaldamento nello spazio?". Elena ride.
Ma io torno allo spazio e controllo tutti i termosifoni. Nella mia nevrosi. Controllo tutto. E non c'è niente che non va. Quel luogo è perfetto. Giacomo lo è. Elena è la persona giusta.
Non ho più scuse per abbracciare la mia normalità che è la mia autenticità.
Che non è quella di mio padre...


giovedì 1 ottobre 2015

Tropico del cancro

Un vestito nero. Una sala prove. Il mio pesce congelato da maggio. Le sue carni puzzano.
Il mio copione. Elena e il suo quaderno. Li seduta a guardarmi e ad amarmi.
Regista lei, attrice e drammaturga di me stessa io.
Si è trasferita a Milano per un lavoro al teatro I che le avevo suggerito. E per me, noi. Per la compagnia. "Siamo solo io e te". Dice ridendo lei. E' abbastanza per essere una compagnia. Per i miei gusti.
E' così difficile incontrare qualcuno che risponda alla tua mancanza. Alla necessità di raggiungere quel mistero che non si colmerà mai. Infatti ci chiamiamo Misteria. Dal significante russo.
La sera prima siamo andate a vedere a teatro uno spettacolo. Non ci era piaciuto.
Siamo uscite nauseate e confortate allo stesso tempo. Confortate rispetto al nostro progetto, ma poi io mi sono persa: "Se questo è il teatro acclamato, premiato e criticato, che senso ha tutta la nostra ricerca?".
E così, io sono andata a casa e mi sono lasciata travolgere dal malessere e da questa impotenza. Lei invece, dormendo con la croce della chiesa di fronte la sua finestra, è tornata il giorno dopo alle prove piena di forza.
"Lisa, devi leggere il Tropico del Cancro di Miller".
Inizia così. Siamo tutte e due nella stessa situazione. In questo nostro perderci e nasconderci dietro a uomini. Di cui vogliamo prendere l'anima.
Come Camille Claudel. Come la Spillrein. Fantasmi che nascondono la nostra essenza.
Anche lei sofferente per la fine della storia con il suo scrittore e io in equilibrio sofferente con il mio pianista. Ma chi sono questi uomini?
Il suo la tradiva andando a trans e con altre pseudo artiste di un collettivo a Torino, e il mio ... beh.. il mio.. è già storia.
Ride. "Leggi il Tropico Lisanka, ti aiuterà. A me sta' aiutando".
Elena è russa. E' una presenza importante e rassicurante nella mia vita. Più giovane di me, ma già grande. Stiamo imparando tanto insieme. Abbiamo un'idea comune del teatro. E stiamo sperimentando la nostra umanità. Principalmente. Mai come in questo periodo il teatro e l'umano nel mio percorso si stanno toccando. Unendo. Confondendo. Amando.
"Chiediti perché fai la mala". Mi aveva detto Diego la sera prima. Lui non crede più. Magari non ha mai veramente creduto nell'arte o in questa idea dell'arte così sacra ed assoluta.
Gli avevo risposto con un: "E' un'urgenza.. un'esigenza..". In fondo non lo so perché la faccio. O non così bene.
Per me è come andare in bagno. Fare teatro e scrivere è come defecare senza problemi ogni giorno. Ecco, non è un'immagine santificante, sacra ed elevata, ma così è.
Anche l'amore non è poi così elevato. Anzi.
Non funzionano le prove. Sono troppo presa dalla mia emotività. Dal mio ego per buttarlo sul pubblico. Sono lì che piango e rotolo. Sbavo e piango ancora.. tutti liquidi che spargo sul linoleum.
"Lisa, cerchi compatimento.. perché? Sei troppo bella.. vai oltre.. cerca la tua bruttezza.. deformati".
E' sempre così. Il testo che esce da me si scontra con me. Ho paura della mala. Ho paura del mio stesso testo.
La data è il primo novembre. Devo sapere affrontare il dolore delle doglie.
Un'improvvisazione e la cosa si scioglie. Un po'.
Usciamo. Sono in totale paranoia. Cieca. Ancora cieca.
"Lisanka devi proteggerti da tutta questa emotività. Veicolarla". Non so neanche come sia proteggersi.
E' una lezione umana che mi manca.
Perché faccio la mala? Manca un mese. L'ultimo mese di gestazione e mi sento pesante. Mai come ora mi sono sentita madre e in relazione con la mia maternità.

venerdì 25 settembre 2015

True love waits

Fermiamoci su questa paura di essere ferma.
Cosa significa essere ferma per me? Significa paura di perdere il mio corpo. Il buio. E l'attesa. E l'incapacità di essere responsabile in questa attesa.
Torniamo indietro. Il mio corpo è tornato a darmi segnali. Il polpaccio. Mi sono fatta male.
Qualche giorno fa ero ad un corso di Excel. Ancora. Corsi su corsi. Diego. Sono stata da lui il fine settimana. Dolore e incomprensione ancora con lui. E così io corro e corro. Chilometri su chilometri. E il polpaccio mi ha lasciato. Mi ha detto basta.

Sono andata in Liguria da lui perché dice che stiamo insieme. E io lo dico a me stessa.  O mi lascio convincere quando attorno a me milioni e milioni di segnali...
Ma c'è una bambina in me che ancora spera che le parole siano vere.
Stiamo in casa. Lui mi fa vedere un libro su Agassi. Non legge mai eppure quello lo comprerà. Gliel'ha consigliato Romina. Una delle sue amiche. Eppure non lo dice. Io lo so.
Passiamo un fine settimana dove io sono al suo servizio. In questa casa vista mare.
Lui va a giocare a tennis. Io lo aspetto con Jack e gli cucino. Ho imparato a cucinare. Imparato..
Ne sono sempre stata capace. Ma per me significava essere una donna sfigata. Era il mio modo di fuggire alla donna che mio padre voleva che io divenissi.
Così correvo forse verso l'estremo per la disperazione di non volermi rassegnare di morire in una forma che non mi apparteneva.
Ma per Diego ho messo uno sguardo creativo. Inventando anche lì. Per amore o perché lui possa un giorno amarmi di più. O vedermi o riconoscermi.
Ma non mi vede. E' rispondere ad un suo bisogno di donna.. di rispondere ad un sua fantasma e di stare nella sua illusione di avere la mia intelligenza a suo servizio. La mia creatività che riempie la sua caduta in una spirale di pigrizia.
Sono lì con il mio pc. Al telefono con Matteo, il ragazzo che sta' producendo. Deve finire la sua biografia da mandare a Sanremo.
"Annalisa, fai tu. Parlaci tu". E sono lì, al telefono con il ragazzo, a correggere e cucire. Mentre lui cucina il polpo con le patate per la sera e fuma fuma fuma...
Vado lì perché lui mi riconosca. Nella speranza che lui mi riconosca e mi ami di più.
E divento quello che non sono.
Tanto lui non modificherà mai se stesso. Lui starà sempre lì. Nella casa che ha comprato per sé. Ha lasciato Milano. Che io ci sia o meno è la stessa identica cosa.
Scrivo il soggetto per il videoclip. Al telefono con Matteo e poi lui con l'agenzia che lo segue.
Diego guarda le partite.
Parto e so che vuole che io me ne vada per continuare a fare le sue cose. Vuote. Sono un po' un peso nella sua quotidianeità fatta di ripetizioni e della sua idea di libertà di "faccio quel che mi pare".
Arrivo a Milano e so che è in chat con questa Romina. Ora è lei che riaccende le sue fantasie erotiche.
Una vecchia amica. Più vecchia di me. Eccitante perché lontana e solo nelle sue fantasie. Priva di responsabilità.
E tutto questo non c'entra con l'amore. Non posso più andare da lui perché mi riconosca. Cosa riconosce se la sua vista è parziale e limitata a se stesso?
La bugia di essere quel che non sono. Quello può riconoscere. Non potrà mai amarmi fino in fondo. E non posso demandare ad altri la responsabilità di amarmi e riconoscermi.
Illusioni. Per mancanza di coraggio. Scendere nel tentativo di una riconoscenza. Di un abbraccio verso la mia essenza. E' un'illusione.
Scendo per perdere me stessa. Quella donna sul tavolo che sta' tentando di nascere e che io combatto con tutte le forze di una Daurine impaurita dalla verità e dalla forza di questa Mala che deve andare in scena a breve.
Oublier.. Il faut tout oublier et tuer Daurine. Il faut la tuer. Prima che il conflitto riduca in cenere ogni mia verità.





sabato 19 settembre 2015

LA SANTA TRINITA'

Era una poesia in origine. 
Di questi anni e giorni con te. Di cui mi porto via più strati o sensazioni.
E' tutto cambiato.
Da tempo e nel tempo. Con costanti e dolorosi atti di forza. Rendendo oggettivo e fuori di me tutto ciò che mi ha fatto male.
Mi è stato detto che fare del male all'altro è inevitabile. E che L'altro non esiste. In una virale filosofia di autoprotezione. Per annullare le scuse e nascondersi dietro all'impotenza umana. Questa impotenza umana in cui mi trovo a vivere e ad assumere. Perché mia. Che ho e spero e tento di superare ogni giorno.
Ed ora resti tu. Ti ho protetto anche dopo una separazione analitica. Voluta da me. Per rispetto? Amore?
Amore per me stessa e un passato di lavoro costante. In un' analisi dispendiosa in tutti i sensi.
Finora ho capito che l'amore, la mia grande domanda, esiste. Ma demandavo tutto ad un uomo. Un maschio. Lo avevo eletto a portatore di tutto questo mio bisogno di amore.
Per poi metterne in dubbio l'esistenza. Di questo amore.. Tanta energia, tanta fiducia, tanta forza.. Ma per l' "altro".
Non per me. Non per la mia autenticità.
Allora in questo senso, forse, l'altro, non esiste.
Anche se esistono gli altri. Gli esseri umani e gli individui diversi da noi. Con cui ci rapportiamo in un reciproco sguardo di specchi.
Io non ho studiato psicologia. C'è stato un momento in cui avrei voluto. Ma di passare per moduli ed esami imposti, non lo sentivo autentico.
Così sono andata in analisi. Un po' alla cieca. Giovanni l'ho trovato sulle pagine gialle online. E mi sono fidata di lui. Dieci anni fa. Avevo solo la fiducia da mettere in gioco oltre ai miei pochi soldi. Guadagnati con un lavoro che non mi apparteneva.
Perché la fiducia è la base di ogni rapporto. Lo è?
Ho letto Lacan. I libri che mi aveva consigliato Giovanni. E i libri di J.Hillman che semplifica tanti concetti analitici rendendo tutto più tangibile e meno riparatorio o intellettuale. L'ho trovato più onesto. Più onesto... Nel discorso.
Ho visto i films consigliati in analisi e poi ho iniziato un mio percorso. A teatro. Con la musica. Perché non sono mai stata totalmente obbediente. Una vocina mi ha sempre detto di obbedire a me stessa. E non all'altro. Forse già sospettavo che l'altro non esiste..
Volevo la verità. La mia. Chissà che non sia per quello che io abbia iniziato a fare giornalismo. E poi teatro. E mi sia buttata in una scrittura sempre più viscerale. Anche con te.
Mi trovo a scriverti perché inizialmente lo ha voluto Giovanni. E inizialmente eri una serie di parole ed argomenti poco ordinati. Alimentato da Mattia che ha preso la parte grafica di te. Ti ha vestito. Ma i contenuti sono morti e rinati per la superficialità sua. E mia. E di Giovanni. Nostra. Di un trio che non si è mai parlato. O non più. O mai più. Per ipocrisia. Per mancanza di spessore e di attenzione. Anche mia. Mancanze anche mie. Ma alla fine, chi è morta un po', sono stata io. Ma solo un po' e per per fortuna forse. E comicamente proprio nell'assenza della parola. Nessun suono di verità. O di coraggio. Ma solo apparenza. Neanche il mio. Neanche il mio coraggio.
Ora lo trovo nel riempirti di amara e sicuramente scomoda verità.
Così, in principio eri le "Comiche" per evadere alla drammaticità della mia esistenza.
Ma la verità è anche che dopo una separazione analitica, ho finto.
Non ho urlato più il mio dolore per un rapporto analitico morto nel e per un "tradimento". Non fisico, no. Sarebbe stato più semplice. Ma dell'anima. Quella quando si rompe si ricompone a tratti. Forse mai. Mai del tutto.
La mia ferita cerco di sanarla ogni giorno. Quella antica. Eppure sanguina e si vede. Anche se i miei occhi gridano amore. Amore. Amore. Amore.Amore. Amore. Amore.Amore. Amore. Amore.Amore. Amore. Amore.Amore. Amore. Amore.Amore. Amore. Amore.Amore. Amore. Amore.Amore. Amore. Amore.....
 Voglio riempirti di questa parola. Perché esiste. L'amore. Anche se non se ne parla mai. O se ne parla confondendolo con la plastica. E allora brucia. E se brucia, puzza. E il mio ha puzzato. Ma se puzza e se ha puzzato è stata solo colpa mia.
Perché l'amore è un'armonia costante di desiderio da alimentare. Senza il fuoco di una passione che serve, ma muore.
Ma è un desiderio costante da alimentare e curare. Nella verità. Che sfocia nella fiducia.
Verità, Fiducia, Amore: la Santa Trinità.


mercoledì 16 settembre 2015

E se fosse il mio ultimo sguardo?

Sfioro la pancia nel dormiveglia. L'estate è passata in un lampo. Sta' per cambiare il numero che mi catapulterà in un nuovo decennio.
E sfioro la pancia. Sono in ospedale. Guardo nello specchio di profilo il mio ventre. E' la scadenza.
Mi hanno portata in ospedale. Anche se non sento dolore. Sono andata a correre. Sono riuscita a correre fino all'ultimo giorno.
"Sdraiati". E' mia madre che me lo dice. Ha i suoi occhiali scuri. Quelli post operazione. La luce le da' ancora noia.
Non riesco a stare ferma. Mi sfioro la pancia e la guardo con una sorta di orgoglio. Anche il mio corpo. Non è cambiato. C'è solo la pancia.
Arrivano le infermiere e le ostetriche. E mi dicono di sdraiarmi e calmarmi. E' la scadenza. Non sento i dolori. Mi chiedo se saprò sopportare il travaglio. Il dolore del travaglio. Lei sta' per nascere. E' una femmina. Lo sento anche se non ho voluto sapere il sesso. Ma so che è una femmina. Ho già un maschietto. Mio nipote. Che per me è come se fosse un figlio.
Viene in ospedale anche lui. Con mio fratello. Lo abbraccio e lo stringo forte e lo chiamo "Amore mio..". Ride con i suoi occhietti azzurri e furbi. E mi tira i capelli.
Chissà se andrà d'accordo con lei. Metto le mie mani sulla pancia. E' così piccola la mia pancia. E lei come sarà?
Passano le ore. Sono stesa sul letto. Mia madre seduta accanto a me. Vorrei andare via. "Quanto tempo devo aspettare perché arrivi il momento?". Sono quasi otto ore che sono lì.
Arriva l'ostetrica. Ha una tenaglia. Uno strano strumento. Mi controlla. Mi visita la pancia. La pressione. E la dilatazione. Le dico: " Tutto calmo".
Siccome non parla, dico: "Non farete mica il cesareo?". Non voglio essere aperta. Voglio affrontare il dolore delle doglie. Farla uscire dal mio sesso. "Un parto naturale.. sarà un parto naturale.." mi conforta l'ostetrica. Eppure lei, dentro di me, è calma. Non vuole uscire.
"Quanto tempo devo stare in ospedale dopo il parto?". Chiedo a mia madre. "Solo due o tre giorni. Ma solo due se è naturale e tutto va bene".
"Ah, allora posso andare a correre... Solo due giorni senza correre..". Mia madre mi dice che sono matta. Che mi devo calmare. Che devo attendere o sapere attendere di più.
Eppure ho l'ansia del movimento. Lei correrà con me. Anche se la sento più calma. E diversa. Diversa da questa madre iperattiva e piena di desiderio in movimento. E' altro da me. Metto le mie mani sul ventre.
Sono felice. Sarà una nascita piena di gioia e non ho paura anche se non c'è suo padre. Non c'è suo padre. Non ci sono uomini attorno a me. Se non proiezioni. Quello più presente è mio nipote.
Poi mi sveglio. E la pancia non c'è più.
Mi sono mossa nel sogno. Come sempre. Cambio posizione e faccio capriole.
Ho la testa dove dovrebbero stare i piedi e i piedi sul cuscino. Dormo al contrario. Eppure solo così mi addormento.
Ma lei non c'è più. E' sul tavolo. In cucina. 30 pagine. Riscritte. Finite. E' tutta lì. Devo solo affrontare la parte più difficile e il dolore che si porta dentro. Ma sono felice. Lei è più grande di me.
Più bella di me. Più autonoma e finita.
L'ho riscritta in agosto. Con Elena e grazie ad Elena. Solo una donna poteva aiutarmi a partorirla.
Ora è lì. La data è a fine ottobre. A Torino. E ho paura. Del travaglio. Manca un mese.
E non ci sono uomini. Non ci sono uomini.
Ma c'è l'amore. E' lì. Sul tavolo. Scritta da me. Ma non sono più io. C'è l'oblio. Dimenticare. Per trovare me stessa in una perdita di crescita.
Qu'est-ce qu'il nous reste? Oublier. Il faut oublier.

ERALDO



Mi vedi? Chi sono? Cosa sono? Arrivo alle 23h30. Lui è giù a Vernazza. E in casa non c'è. Arriva in motorino. Sono dietro di lui. Nascosta dietro la sua auto. Non mi sente. Non mi vede. E' buio, ma faccio rumore. Le mie dita scontrano la portiera della sua auto. E' al telefono che mi chiama. Non ha neanche capito che il mio cellulare a casa sua non prende.
"Buh!". Salta e dice: "Porca troia!" e continua con una serie di parolacce mentre io rido e rido… Perché è come un bambino che non vuole crescere.
"Ma sei cretina a farmi questi scherzi? Potrei rimanerci..". Lui è tutto lì.. Fermo. Mentre io sono in movimento intorno a lui. Si è rifugiato nel mio mare perché ama quella bellezza da dove provengo e s'illude di trattenerla e di trattenersi. E' ubriaco. Lo sento al primo bacio e mi arrabbio. Dice: "Ma no, ho bevuto solo un po' ". Poi scendiamo a Vernazza. Vado in casa a lasciare le valigie, le borse, il microfono, il vestito della Spiaggia che mi sono cucita e che interpreterò in paese per la festa mentre lui suonerà. Scendiamo in motorino con Jack. Il suo cane che è anche mio. O nostro. Giù c'è Eraldo. Un personaggio che andrebbe bene nella Mala o nella Parola dell'Altro. Nei miei progetti diseducativi o antieducativi. Legati ad una disobbedienza.
Eraldo ha tre figli, due mogli, o ex mogli. Lavora se ha lavoro. Le cose più belle nelle case di Vernazza le ha fatte lui. Non le ho viste. So che vive in una stanza del paese. Me l’ha detto Diego. Io non sono mai andata troppo sul personale. Perché essendo riservata io, non sopporto di invadere i confini dell’altro.
Ma è un artista. Lo percepisco. 
Eraldo sa tutto del paese e della storia. E' talmente estremo e fuori delle regole che lo capisco. Non servono tante parole con lui. Poi io sono nata lì, in Liguria, anche se mi dice: "Una spezzina milanese non l'avevo mai vista". Lui ha scritto un pezzo in difesa di questa spiaggia selvaggia nata dalla violenza. Anche lui come me o come molti in paese non vogliono che venga chiusa. A parte per la bellezza, ma anche per la simbolicità che si porta dietro.
Sono andata lì una notte di due anni fa. Con Diego. A baciarci di fronte al mare nero. Quando lui stava con Maria Teresa e ripeteva che non ero adatta a lui perché la tavola alla 20h30 per cena non gliela avrei mai saputa far trovare.. Ora siamo lì insieme a "lottare" perché non la possano chiudere. La nostra spiaggia. Ho scritto un monologo. E interpreterò questa spiaggia. O me stessa poi.
Parlo con Paola, una cantante amica di Diego e di Eraldo. Poi arrivano Massimo ed altri.
"Ho perso il portafogli". E’ Diego. Sono anni che si perde tutto. Mi basta assentarmi un attimo perché si perda pezzi di sé. Sono seduta in piazzetta vicino ad Eraldo. Sembra Osho. Fisicamente. Io non parlo e lui non parla. E' un dialogo tra liguri perfetti. Diego sta' parlando con alcuni ragazzi. Fumando. " Non compra neanche la casa nel bosco di Bonassola". Eraldo interrompe così il silenzio tra noi." Dici? Per me andare a vivere lì con lui è davvero complesso. Non potrei per sempre come vorrebbe lui". Eraldo sorride e sornione mi dice: " Eh lo so.. te non sei donna da spiaggiarsi. Sei una sirena". Poi passano dei ragazzi e uno fa degli apprezzamenti. Diego mi guarda come fossi un aggettivo possessivo." Se guardi così hai paura che te la portino via..". Poi rientriamo. E mentre lui va a prendere il motorino, Eraldo mi dice "Ma ti fidi di lui?". E dico: "Sono tre anni ormai che ci nuoto dentro..". Lui ride e dice: " Allora vuol dire che quando portava qui la bancaria c'eri già e le faceva le corna". E io ridendo: " Lì chi facesse le corna a chi non si è mai capito..". Poi incalza " Ma tu ti fidi di lui?". E con un sorriso gli dico: " Mi fido di me. Mi basta questo". Poche parole. Uno sguardo e tra liguri emarginati in modo diverso dalla nostra terra, ci capiamo. Salgo in motorino con Diego. Jack con noi. 
Il giorno dopo è la serata in difesa della spiaggia. Come sempre il tutto è organizzato un po’ “superficialmente” e non so bene se chi debba sentire le nostra urla ci sia. Ma tra il pubblico intorno alla grotta che porta alla spiaggia nuova, ci sono tanti bambini, persone del paese, la mamma di Diego, Diego, ed Eraldo.
Lui è Vernazza. Finita la serata, non gli parlo ancora. L’urlo della spiaggia mi appartiene. Me ne sono andata a diciotto anni per non essere chiusa o bonificata.
Arriva Ferragosto. Diego suona al Blue Marlin con altri musicisti arrivati da Milano. Sembra così viva e ancora più bella Vernazza avvolta dalla musica.
Eraldo è sempre lì. Ad ascoltare. Si confonde tra le pietre e le case.
Finita la serata, scendiamo in piazzetta. Mi siedo vicino a lui. Diego sparisce.
Eraldo ha un tatuaggio sul braccio. “L”. Gli chiedo chi sia questa “L”. E mi racconta la storia di una ragazza amata in gioventù. Non era di Vernazza. Veniva lì in vacanza. Non aveva una gamba. “Ma era bellissima” mi dice. La corteggiava con garbo. “Per farle di-capire che non la di-volevo di-prendere in giro”. Mette la “di” davanti alle parole perché ha avuto un problema di “balbuzie”.
 E quando finisce una frase mi guarda per mettere il punto.
Insomma, alla fine “L” e Eraldo passano una notte insieme. Lei si fida di lui.
“E poi?”. Chiedo. Perché lui si è interrotto salutando qualcuno nel movimento della piazza a Ferragosto. “Ah, non l’ho più vista. E’ sparita”.
Ma è sul suo braccio.
Diego arriva. Sbuca fuori dal bar. Lo stesso dove aveva perso il portafogli. Ha un bicchiere in mano. “Lei ti voleva intervistare su Vernazza”.
Si, ma alla fine è più interessante l’umanità di Eraldo. “Chiedimi di-quello che vuoi di Vernazza. So tutto” dice lui. E così l’argomento si sposta lì. Sulla piazza che dopo l’alluvione è una schifezza e “una vera presa per il culo”. Le luci. Lo stile. Tutto. Come le fogne vicino alla spiaggia nuova.
E mi conferma le ragioni della mia fuga a diciotto anni. Una gestione in mano alla mafia.
Non gli dico che scrivevo per Il Secolo XIX.
Ho scritto per anni. E spesso in difesa dei luoghi. Non gli dico che anni fa un giornalista di Der Spiegel mi contattò perché aveva scoperto, con un’inchiesta  partita dalla Germania, che  Ilaria Alpi, una giornalista che amavo, era stata uccisa proprio perché aveva scoperto un traffico di armi e di rifiuti tossici che dall’Africa finivano sepolti nella mia terra.. Nelle discariche. Intorno a Spezia. Sotto la terra che io amo tanto.
Questo già nel 94, quando avevo diciotto anni. E pensavo di poter salvare il mondo. Al giornale mi censurarono. Mi dissero “Tutta Spezia e la Liguria è piena di rifiuti tossici e di mafia.. mica possiamo metterci contro..”.
Questa fu la ragione per cui me ne andai a Milano. Per salvarmi forse. O per codardia. O forse perché non ero abbastanza forte per non diventare vittima anch’io di una mentalità che ha rovinato un paradiso.
Questo ad Eraldo non l’ho detto. Ma lui l’ha detto a me. A modo suo.
Lui è rimasto. Io me ne sono andata. Ora ritorno e mi sento ancora legata alle rocce, a questo mare. E vedo sempre di più il male.
Eraldo ha reagito con la “violenza” alla stupidità delle persone del posto. “Sono stato in galera”. Mi confessa. Non so perché. Ma penso che le sue reazioni forti, siano solo forme di ribellione verso l’ignoranza.
L’innocenza è una colpa. A volte lo è.
Poi non so perché, ma torno agli affetti. Gli chiedo delle sue mogli. Dei figli. Delle mogli non vuole parlare. O non in quel momento. Ma verso i figli sento una paternità vera. Presente.
“Sai, quello che mi di-manca è una carezza la sera. Quando torno a casa. Mica di di-trombare. Ma un affetto, quello si”.
Poi mi parla della solitudine. E mi ricorda Pasolini. Perché solo chi ha imparato ad essere forte, può amare la solitudine e quindi vedere la vita. Quella vera.
Diego risbuca dal bar. “Amore, andiamo via”. E’ completamente ubriaco. Mi viene da piangere. Pianto misto a rabbia. Saluto Eraldo di fretta e gli chiedo se posso tornare da lui ad “intervistarlo” o semplicemente ad ascoltarlo. Mi dice: “Quando vuoi”.
Vado via con Diego e Jack. Diego si ferma poco dopo. Sulle scalette della farmacia. “Lasciami qui un attimo. Poi mi riprendo e andiamo”.
So benissimo che non ce la fa. Non riesce ad andare dritto.
Vado da Massimo e gli chiedo se può aiutarci. Non so portare il motorino e Diego non è in grado di guidare.
Dopo varie resistenze, Massimo chiama Eraldo. Gli lascia l’auto ed inizia il rientro a Drignana più divertente della mia vita.
“Tira giù il finestrino se devi vomitare..” dice Eraldo ridendo a Diego. “Devi di-stare attento. Mica ci sei solo tu: hai lei e una di-bestiolina”.
Nella radio c’è un CD di musica classica ed Eraldo fa le curve da Vernazza a Drignana con la sicurezza e la guida selvaggia che conosco. O riconosco. Perché da ragazza con mio fratello e i suoi amici le vivevo tutte così.
Solo i “culi bianchi” non guidano così. Sembra un rientro misto ad un horror o un film surreale.
“Tutto bene là dietro?” mi chiede Eraldo. Certo che si. So che conosce quelle strade ad occhi chiusi.
Ci lascia sani e salvi davanti casa. Gli do’ un bacio pieno di riconoscimento. Anche Diego lo ringrazia.
La mia notte poi sarà difficile. Nella rabbia. Ma mi ha salvata il mio alter ego. Eraldo.
I giorni successivi torno a Milano. Rientro con uno spettacolo scritto in un pomeriggio. Per il Blue Marlin. Per Diego e Pietro. Un musicista ed un attore. Due artisti. Che omaggiano un po’ Vernazza e un po’ il locale che ospita musica. L’ho scritto per Massimo che ha prestato la sua auto per portare su Diego. E per Eraldo, che so che amerà.
Infatti la serata viene bene.
E dopo poco Eraldo mi dice: “ Dovete ripeterla qui quella cosa lì..”. Perché lui vede la vera Bellezza. E desidera solo l’amore vero per la sua terra.
Non so rispondergli. Me lo dice con gli occhi buoni e fragili nascosti dai capelli e dalla barba bianca. Forte e fragile allo stesso tempo. Come me.
Ma io me ne vado.
Tornerò a Milano con il mare dentro e la solita sensazione di non aver mai fatto abbastanza. O di essere fuggita. Lasciando lì a combattere parti di me.
Ma torno a Milano con il mare dentro e gli occhi di Eraldo che mi dicono: “Mi di-manca solo una carezza la sera”.