venerdì 1 agosto 2014

Postino rosso dal cuore rosa.

Ho spostato le sedute. La pioggia di questi giorni mi riporta negli abissi.
C'è una consapevolezza profonda. Un'esigenza o un contatto con parti di me che poi si scontrano.
Vorrei tanto poter essere più leggera. A volte amare meno. Traboccare meno. Risparmiarmi anche di più. Che tradotto nel mio linguaggio significa: adeguarmi a quella modalità da supermarket delle relazioni. Ad una vita a metà. Come arrendermi al patinato su cui scivolo.

Non ci riesco. Solo su un palcoscenico riesco ad attraversare ruoli più comici. Lì lo sono. Leggera. Per non mostrare quello che nel ruolo a volte attraverso.
Poi tolgo il guanto e mi getto nel reale senza protezione. E resto incinta di relazioni che terminano in aborti. E non resta nulla. Non è restato nulla dei feti che ho incontrato. Anche se li ho levati da me con parole d'amore. Per perdonarmi.

Ho tante domande dentro. C'è un'ombra che non riesco a far uscire.
Ho in mente Sabina. La Spielrein. E' una figura che John mi ha fatto conoscere sin dalle prime sedute. La biografia di questa donna come quella di Camille Claudel si sono intrecciate con la mia questi anni. E le ho conosciute prima di conoscere me. Di Camille riconosco l'energia. E il desiderio nell'arte. E una famiglia che l'ha rinnegata. Rinchiusa in un manicomio. A marcire perché la sua diversità le è tornata contro. Come un boomerang.
Di Camille, riconosco il partorire statue come figli. Opere d'arte che restano. Nel tentativo di annullare l'idea di morte. Credo di perseguire l'esigenza di fare arte, in ogni sua forma. Ogni sua forma. Lo ripeto. Per non morire. O morire e rinascere ogni volta.
Quando inizio uno spettacolo. Dal suo studio, alla sua preparazione fino alla messa in scena, è un percorso di amore e di rappresentazione della vita. Esisto lì. In quel darmi ed essere. Ogni fatica. Le ore dedicate. Il sudore. Le preoccupazioni. Le difficoltà e le piccole sconfitte che poi lascio dietro di me, sono morti che generano vite. Vite nuove e in quei passaggi cambio. Divento altro. Sempre altro.
E amo. Presa da un desiderio e una passione che è fatta anche di quotidiano. Essenziale per mettere alla prova e disegnare il mio amore.
Piccole e numerose problematiche legate al reale. Come trovare un luogo. O persone adatte ad unirsi a me e ai miei progetti d'amore. Per generare e rappresentare.
Ecco, forse è questo l'amore. Mi pervade ogni volta che scrivo. Che salgo su un palcoscenico e tento di dare vita alle donne, alle infinite umanità e donne che urlano e tentano di uscire da me. Quando canto o sento un pezzo di musica.
I tasti del piano sono colori. Chiudo gli occhi e ogni tasto per me è un colore diverso. Una variazione. Un orgasmo pieno e infinito di colori e di amori.

Alfie mi ha detto che sono masochista nel provare e provare all'infinito. In una palestra dal pavimento nero. In un neutro in cui il mio corpo si perde e partorisce vite nuove e diverse.
No. Io lì muoio e rinasco in eterno. All'infinito. Perché la morte non esiste. Sono parte di un'infinito che si trasforma. Raggiungo una consapevolezza e poi muoio per riviverne un'altra.
Il mio masochismo è stato ed è quello di andare a perdere il tempo che mi è dato con chi non sa che fare con me. Con chi non ha consapevolezza della vita e allora tenta di raggiungerla succhiandola in altre vite.
Lì muoio. E mi faccio uccidere.

Nell'arte, nasco e muoio in eterno. La paura. E' quella che ci fa credere che siamo finiti. Che esiste un assoluto. Perché dividersi, ed essere diversi nella conoscenza di noi, per poi perdersi nell'infinito è qualcosa che dilaga e sconvolge.
Ma lì finiremo.
Io lo esprimo nell'arte. E' la mia "cosa" per quanto poco quantificabile e riconosciuta sia oggi. Quell'angoscia che avevo da bambina nel pensare all'infinito.. la riempio di senso nel fare arte. Che non è comprensione o recinzione, ma amore.

Da bambina, nel mio letto, non dicevo le preghiere. Mia madre mi diceva di dirle. Ma mi sembrava una ripetizione così priva di verità. Allora chiudevo gli occhi e immaginavo di essere su un prato. Di notte. E di guardare le stelle.
E iniziavo a chiedermi: "Ma io chi sono in mezzo a tutto questo? cosa sono?". Ripetevo queste domande. Che erano le mie domande. "Io chi sono?". Nel nero pece del mio cielo, tra puntini di stelle, mi perdevo. Mi spezzavo e sentivo sciogliermi in qualcosa che non aveva più una coscienza. Tantomeno un ego. Ed ero invasa dalla paura. Anche se oltre quel muro, quella paura, c'ero io forse. Sicuramente qualcosa.
Era come se in quella domanda nell'universo, mi aprissi e sciogliessi in un mare infinito in cui la coscienza era unita al tutto.
Magari in quell'unione stavo incontrando Dio senza morire.

Quando faccio arte. Quando scrivo. Mi perdo. Divento altro ogni volta. Non ho barriere. Né paure. Sono io. Anche se non serve a niente. E' completamente inutile l'arte. E' un concetto che non si può monetizzare. Come il peso specifico di un essere umano. Quanto costa?
Ho incontrato persone con due lauree, musicisti, persone accettate nelle regole reali, ma.. loro moriranno. Moriranno. Perché di quell'universo, del buio dell'infinito hanno paura. Temono di perdersi in lui.
Morirei anch'io se non cavalcassi la mia cosa.
Chissà se sia questa spinta che attira cuori fragili a farmi male. Chissà se, tuttavia, ancora scivolo perché non accetto l'infinito che mi chiama da anni.
Pur vedendo, ancora soffro.

Dopo anni, nella mia relazione con Mr D. ho capito perché John vedeva un po' di me in Camille. Prima di me. Lei si è distrutta. Si è persa e ha distrutto la propria essenza e bellezza inseguendo un uomo o un'idea. Rodin l'ha mangiata. Si è cibato di lei. E con Mr.D stava andando così. Anche se non siamo quelle persone e figure. E l'epoca è diversa. Ma stava andando così. Com'era andata con mio padre.
Mr D. è riuscito a strapparmi un po' di carne. A mordere un po' della mia anima.
Ma sono riuscita a trasformarmi.
C'è mio padre dietro tutto questo. Lo so. Sono tornata tra questi uomini per i miei sensi di colpa. Perché sono fuggita. Ho disobbedito al padre. E alla fine volevo solo riconciliarmi con lui.

Eppure sta' cambiando tutto. L' idea di famiglia e di relazioni. La mia idea. Quella famiglia che ho difeso per anni per non vedere.. Mi ha soffocato. Le mie psicosi, le mie manie sono dovute alla mia famiglia.
Anche se sono grande per smetterla di deresponsabilizzarmi,.. eppure, come per Sabina, da lì vengono le mie nevrosi. La differenza con lei, a parte un'intelligenza ( la sua) che non posso eguagliare, è che i miei mi hanno ignorata per anni.
Ero isterica. Mi chiamava così mio padre quando urlavo in casa perché non mi faceva uscire. O mi chiudevo in camera per sfuggirgli. Senza mangiare.
Aveva gettato via un mio quaderno in cui scrivevo il buio. Dove parlavo di sesso. Lo prese e lo buttò o lo nascose. Ero un'adolescente. Lui lo lesse e lo gettò scandalizzato e preoccupato. Forse preoccupato. Anche moralmente preoccupato da questa femmina.

Non ho avuto la fortuna di incontrare Jung quando forse mi sarei potuta "salvare" senza perdere tempo. Mi dovevo solo semplicemente uniformare. Schiacciarmi. Comprimermi.
Ho gridato e sbattuto porte per anni. Non ho mangiato. Ho scribacchiato. Mi sono fatta male. Tanto male. Alla fine ho iniziato a galleggiare in attesa di una fuga. Che mi ha salvata, ma non del tutto.
Il mio corpo è stato più veloce e intelligente di me. Lui mi ha parlato con violenza. E' per questo che ho incontrato John.

"Ci sono cose che non ti ho detto". Gli ho scritto stasera.
Ieri sono arrivata da lui, sotto la pioggia. L'ho incontrato all'ingresso. Era tutto rinchiuso e incelofanato nel suo impermeabile rosso. Si sposta in bicicletta sempre. Anche con la pioggia.
E' matto come me.
"Sembri il postino in rosso. Non ti avevo riconosciuto".
"Ma io sono anche il postino. Ti stavo aspettando". Ha i pantaloni rosa. E con l'impermeabile rosso non vanno bene. Stonano. Non glielo dico. Ma non è questa una delle cose che non gli ho detto.

In seduta parliamo di Sabina, di Jung. Di amore. A volte ho idea che diciamo la stessa cosa, ma in modi diversi.
Uscendo mi dice: "Scrivi. Continua a scrivere". Certo. Il libro si sta' facendo. Non solo quello.
Nello studio c'è una luce soffusa. Mi accompagna alla porta e mi saluta. Uscendo con la coda dell'occhio intravedo qualcuno seduto al posto di Cuore Fragile tre.
Non sono sicura sia lui. Intravedo uscendo. Qualcosa. Penso sia lui per il ruolo geografico che ricopre da John. Ma non l'ho sentito. Né percepito. Né salutato.
Tornando al lavoro mi dico. " Non è restato nulla". Era quello che temevo. Che sapevo. Ed è la cosa triste degli incontri che tento di esprimere a John.

Questa è una delle cose che volevo dirti John. Una delle. E mi preoccupa. Ce ne sono tante altre. Legate a questa. Come la storia dei cani lupo giovani. Che mista alla tua spiegazione degli ormoni che devastano la coscienza... al ricordo del tuo impermeabile rosso.. Ecco mi fanno pensare a Cappuccetto Rosso, il lupo cattivo e a chi un po' ormai, la favola, se la racconta perché è una spiegazione sicura.
E la responsabilità di noi che siamo "più avanti" ?
Non va bene. Essere così pochi. Non va bene spiegare solo a noi stessi.

"Perché hai detto che Sabina era pazza?" chiedo a John.
"Lo è come posso esserlo io. Ma poteva salvarsi fino in fondo. Non l'ha fatto perché è stata battuta".
"Da chi? Da Jung?"
"Da suo padre".


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