martedì 12 agosto 2014

Arbeit macht frei

"Ciao mamma. Sto' andando ad Auschwitz. A questa sera".
"Ok. Divertiti!".

Mi fa sorridere amaramente l'sms amorevolmente ingenuo di mia madre.
Sono in vacanza. A Cracovia. Ogni estate scelgo città diverse per perdermi in parti di me che ancora non conosco. E magari mettermi alla prova per amare meglio e sempre di più.
C'è qualcosa che lega la mia ricerca. In questa estate così strana. Sto' cambiando. La mia ricerca sull'amore, la sua esistenza e la comicità stanno assumendo contorni e valori diversi.
C'è un'umanità che sto' rincorrendo. E questo "amore".. porta domande che a sua volta mi hanno portata qui. Anche ad Auschwitz.

Sono a Cracovia da qualche giorno. Ho preso un appartamento nel quartiere ebraico. Non nel ghetto, ma nel quartiere ebraico. Accanto alla vecchia sinagoga. Il mio appartamento' da' sulla piazzetta storica. Sotto locali, ristoranti e musica. E' un posto meraviglioso per stare e scrivere.
Quando posso evito gli hotels perché sono senza personalità. Mi definiscono "turista". Invece a me piace mescolarmi. Vivere come una persona del posto. Andare a fare la spesa "con loro".
Essere dentro una vita e una lingua altra. Perdere i confini di me stessa per trovarne altri ed avvicinarmi anche solo un po' all'anima diversa che sto' conoscendo.

La sera a Cracovia apro la finestra e sento un sax, un contrabbasso. Suonano insieme. Una donna canta lirica. Risate e un'umanità pulsante, discreta, gentile. Ed autentica.
Ecco: Cracovia è autentica. E per me questo aggettivo è già sinonimo di amore.

Sono sul bus che mi porterà a conoscere un'umanità di cui ho solo letto sui libri di storia. Oppure al cinema e in televisione. Tra le lettere del diario di Anna Frank e di Primo Levi.
Ho paura. Il campo di sterminio di Auschwitz mi fa paura. Sull'autobus che mi sta' portando lì mi chiedo: "Perché non faccio percorsi più divertenti?".
L'autobus mi lascia all'entrata del museo di Auschwitz. Un'ora e mezza di autobus da Cracovia.
C'è il sole. Ho deciso di andare proprio questo lunedì quattro agosto. Non avrei potuto affrontare la giornata con la pioggia. Ho scelto in base al meteo.
Le guide e i forum sconsigliano di entrare nel campo con il brutto tempo. Così come sconsigliano la visita ai bambini sotto i 14 anni e alle persone troppo sensibili.
E di quella sensibilità ho paura. Del "troppo" che mi appartiene. Che fa paura alla maggior parte che mi avvicina ed anche a me.
Eppure eccomi qui. Ad aspettare la guida italiana insieme ad altri sessanti connazionali. Ci sono pure i miei due amici del volo. La coppia omosessuale che era seduta accanto a me. Sul Ryanair flight delle 9h45.
Si tengono per mano e si baciano ancora.

Improvvisamente il tempo cambia. Un temporale fortissimo. Il cielo diventa scuro. Lampi e tuoni. Dalla finestra della sala di attesa vedo la scritta all'entrata del campo "Arbeit macht frei": il lavoro rende liberi.
Sento cose strane. Aspetti conosciuti e sconosciuti.
E ora che sto' scrivendo, mi sento in difficoltà. Perché qualsiasi cosa io possa scrivere di quel che ho visto e vissuto sembrerà ridicolo. Perché detto da me, dopo che sono state scritte pagine e pagine su questa storia.. da me che sono solo una donna che rincorre commedie.. che peso può assumere? Scritto e detto da me?
Eppure c'è un senso. La mia ricerca sull'amore, quello vero e autentico, passa anche da qui. Anche se non riesco a scrivere. Sto' scrivendo a tappe. A fatica.



E' quasi l'ora dell'arrivo della nostra guida. Andiamo all'esterno ad attenderla e per qualche motivo, la pioggia cessa. Il cielo è ancora coperto, ma non piove più.
Mentre metto via l'ombrello arriva Marco. "Voi non siete veri italiani. Di solito quelli veri portano il sole in Polonia". Esordisce così la nostra guida. Chissà se ha tradotto anche il nome.. Magari in realtà si chiama Mark..
Ci spiega alcune cose tecniche. Dove non fare foto. Di non parlare a voce alta e di seguire le sue indicazioni.
Non può urlare. Ha un microfono. Il suo accento preciso, tagliente e vero ci arriva dentro alle cuffie.
Oltrepassiamo il cancello d'ingresso. Quello con la scritta cinica. "Arbeit macht frei". E dice subito che il lavoro era solo un effetto secondario. La scusa per mandare a morire milioni e milioni di persone. Non solo ebrei. Lo capirò. Il progetto nazista, la follia attuata da Hitler e i suoi seguaci era lucida, logica e ben strutturata.

Siamo appena entrati nella residenza della morte. Marco ci mostra le prime baracche. Fatte con i mattoni rossi. Fatte dai "detenuti". La doppia recinzione di filo spinato percorso da corrente elettrica.
Ci dice che  quella scritta, il lavoro rende liberi, è l'esempio della crudeltà e del sadismo nazista. Perché il lavoro era solo una scusa. Per annientare. E non per rendere liberi. Una copertura per rendere regolare l'idea di Hitler di spopolare la Polonia e ripopolarla di tedeschi. La razza ariana.
Ad Auschwitz non morirono solo ebrei, ma milioni di polacchi, russi, zingari e altri detenuti politici di altre nazionalità.
Pochi passi dopo il cancello e il mio stomaco si chiude. Qualcosa, un'emozione, il mio "troppo" sale e si manifesta negli occhi. Sono gonfi di lacrime che escono nel percorso. Mentre i miei piedi camminano su un terreno macchiato di sangue e corpi.
Mentre vengo informata che mentre i detenuti rischiavano la morte nel costruire "qualcosa dettato dal niente", musicisti suonavano. Foto fasulle testimoniano una propaganda perversa.
I tedeschi volevano dichiarare al mondo che nei campi erano mantenute regole di rispetto per l'altro.
Cammino, ma piango. Sotto di me un'manità perduta. Annientata. Non c'è niente di comico lì. Tra le immagini che mi si presentano dalle parole di Marco.

In una delle baracche ci sono capelli. Trecce, ciuffi bianchi, neri, sbiaditi dal tempo e così presenti. Venivano tagliati ai nuovi arrivati e ai cadaveri dopo le camere a gas.
Bambini e anziani erano i primi a non avere l'opportunità di sopravvivere quei due o tre mesi nel lager.
Venivano mandati direttamente alle camere a gas.
" Vi chiederete perché tenessero e tagliassero i capelli dei detenuti.." . Marco ci mostra un tappeto. Quello venne fatto con capelli di esseri umani. Con quei ciuffi esposti prima.
Piango. Non riesco neanche a scrivere. E' talmente reale che non riesco a scrivere.

Non fu solo una guerra contro e per gli ebrei. Fu una guerra contro l'umanità. L'amore. La vita. Il senso dell'esistenza. Malgrado tutto, in quel buio, io ho intravisto racconti di amore. E di un'umanità straordinaria su cui sono in cerca da tempo. L'umano che manca. E che cerco.
Marco ci dice essere nipote e discendente di persone morte lì dentro. Cosa c'entrano i polacchi con la religione ebraica?
Ci illustra le valigie. Ammassate. Con i nomi "Klara","Otto". Gli indirizzi. Perché chi arrivava, arrivava con la valigia e la speranza di potersene andare un giorno.
Altra perfidia nazista. Ingannavano i deportati. Invece le valigie venivano svuotate. Gli oggetti usati e rivenduti o tenuti per sé. 

L'inganno di una speranza di vita. Lo svuotamento. Lo svestimento. La rasatura e abiti a strisce che rendevano tutti uguali. Omologati.

Dopo le valigie ci sono gli oggetti ammassati. Pettini, rasoi, scarpe... infinità di scarpe. E i denti.
E le foto con la data di nascita, di arrivo e morte.
Non ce la faccio. Devo spezzare il racconto. Ho tutto nel cuore. Nella testa.
Ma non riesco a scrivere di getto e di fila. Devo riposare il dolore e capire dove sia stato l'amore in tutto questo male. E perché io sono qui? Adesso. In questo momento della mia vita poi.
Se volevo attraversare il male e la perversione dell'umano, sono nel posto giusto. Se è per questo che sono qui..
Sento ancora le urla. La disperazione nel racconto di Marco e in quelle stanze..
Vorrei finire in un unico scritto. Volevo fare così. Ma non ci riesco. Continuo domani. Devo fare una pausa. Ho le dita e il cuore che non riescono a comprendere oltre.

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