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Antoine D'Agata |
Lavoro
da due anni con la fotografia, quindi con le immagini, e da quando ho
scoperto il lavoro di quelli che poi sono diventati i miei
riferimenti, Daido Moriyama e Antoine
D'Agata, ho iniziato a sentire quanto le immagini ti vengono da
dentro, anche se poi scattare una fotografia sembra un gesto
esteriore, estroverso. In realtà quando scatti sei in una terra di
nessuno, o meglio in una terra di mezzo dove confluiscono diversi
mondi, quello che hai dentro si connette con quello che c'è fuori e
i tuoi desideri e la realtà esterna si coniugano in misteriose sfumature che c'erano anche prima, solo che non eri in
ascolto a coglierle ...
Prima
scrivevo e mi occupavo di arte, mi tagliavo la testa in due per poter usare la mia parte critica al meglio e
recuperare pneumaticamente il dolore scegliendomi di parlare di
performance art e di danzatori butoh piuttosto che di nuovi media
perché quello è il mio centro di gravitazione, anche se poi quello
che ti occupa può risuonare con cose lontane, e quello che ti piace può virare in
stile senza attenzione per i corpi reali, quelli che passano fuori
dalle accademie e dai musei e che cercano cibo, amore, soldi,
ascolto, attenzione, e per cui solo se quanto è dentro (le
accademie, i musei) ha una assonanza forte mi interessa, altrimenti
anche la fotografia diventa una tecnica con cui si tenta di scordare
che dobbiamo morire e che soffriamo per l'assenza di qualcuno, ma se
ce lo scordiamo troppo smettiamo di desiderare e la nostra dimensione
diventa insipida, ansiogena e fascista, si sarebbe detto una volta,
sopratutto a Milano, dove vecchi palazzi di quell'era sono ancora
dispiegati sul territorio, con le loro ombre, come la Stazione
Centrale dove dei barboni mi si sono offerti, a me e alla mia
macchina fotografica, per potersi comprare un panino o una birra e lì
mi sono reso conto di cosa avrebbe significato essere un fotoreporter
che fa il suo servizio soddisfatto, con un 'poveretti' che nasce
dalla bocca a coprire un buco ben più grande nella mia anima, e
loro forse non lo sanno ma se non sto attento sono lì per quello,
voluti da me o da gente simile a me ma con cui potrei trovarmi
improvvisamente, per imbarazzo, d'accordo ...
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Daido Moriyama |
Ho
lavorato sulle fotografie di Francesca Woodman, che si è suicidata a
un'età in cui anche io riflettevo sulla nullità del mio vivere
famigliare (del bisogno di trovare un altro a cui dire tutto come
Jack Cassady ascoltava tutto di Dean Moriarty) e sulla mia
possibilità di sparire in modo così intenso da affidarmi poi alle
amicizie e agli ideali per uscirne, in modo così repentino da lasciare indietro, rinchiusi in chissà che fondo armadio, chissà
quale ben di dio interiore per paura di guardarci ancora e di farmici risucchiare, ma per lei, buttatasi a ventidue anni dal proprio studio
di fotografa a new York dopo aver pubblicato il proprio primo libro, quelle disordinate
geometrie interiori, ho provato così tanto affetto che non ho potuto
non guardare ancora dentro quel mio pertugio, e ho provato tanto il
senso di venirne risucchiato da quasi frantumarmi, in una fredda
notte di ottobre, dove ho sentito contemporaneamente, dalle immagini
di lei che stavano nella mia testa, da quel corpo giovane di ragazza
che si mescolava con gli ambienti che fotografava e che quasi spariva
in esso, tutta la fragilità, la impossibilità a vivere, lei che
amava Gertrud Stein perché era così diversa nel suo imporsi anche
alla sua compagna al punto di scriverne la autobiografia, e nello
stesso tempo tutto il bisogno di un mondo, quello dell'arte, di
distrarsi dal suo corpo per dedicarsi all'arte appunto, chissà se
Francesca fosse stata giapponese e avesse avuto come amico Eikoh
Hosoe o Tatsumi Ijikata invece, o se avesse avuto il tempo di farsi
amica Nan Goldin, se si sarebbe salvata ...
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Andrea Chiesi |
Mi
era arrivato addosso tutto il dolore del mondo, con il desiderio
dell'altro di lasciar perdere, mentre il mio altro ormai era
Francesca, che mi chiedeva di non lasciarla perdere, e allora ecco
alcuni autoritratti che erano reenactment di sue fotografie, ecco una
mia foto da Londra col volto pestato in una rissa e la mia, Nan Goldin, i
ricordi di quando avevo sfogliato un catalogo di taccuini di Andrea
Chiesi con quei corpi punk che mi ricordano i ragazzini di Larry
Clark, quel fotografo che molti definiscono perverso perché
ostinatamente ci ricorda quanto siamo fragili, touch me I'm sick, ma
no basta un po' di educazione e di età adulta per farti capire che i
conflitti sono nel passato, devi crescere, oppure hai avuto problemi con papà e mamma da confidare allo
stanzino del potere della psicologia, per non disturbare, e avere in cambio il nulla per poter
stare tra gente che non ti è simile perché considera i soldi e il
lavoro come il tributo alle angosce che non vogliono avere, le
tue, quelle dei barboni, dei tossici della Banhnof, dei transessuali
che a New York vivevano in tribù sperando di non farsi decimare
dall'AIDS, degli skaters che si suicidano davanti alle telecamere o
che predano le ragazzine vergini sperando di non farsi
infettare da una malattia venerea, e che io ho finalmente accettato come mie, non quelle di
un ago, non quelle di un rasoio, non quelle di una mano che si fa
pugno per pestare il volto di qualcuno che non vuoi più spettatore
giudicante delle tue, fragilità? se si declinano con così tante
immagini come fanno a essere fragilità? sono forze a dire il vero,
forze che ti attraversano, lo sapeva Deleuze credo, e pochi altri,
Artaud forse, e sono forze che non abbandonerei mai perché sono lì
e mi chiedono di fare qualcosa, non sono parassiti di cui vorrei
liberarmi, perché se le tengo vicine e dentro sento cosa voglio,
anche solo dalla mia macchina fotografica, che è due anni che mi
impedisce di perdermi, e per liberarmene, inoltre, dovrei barattare
tutta la mia storia di essere umano, cosa che non sono disposto a
fare, visto che ci tengo molto.
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Francesca Woodman |
Francesca
dunque, che dai suoi ventidue anni nell'abisso mi chiama di notte per
abbandonarsi tra le mie braccia, perché non mi dimentichi più di
lei (è un po' come quando Querelle e suo fratello si guardano negli
occhi sfoderando il coltello, ma finalmente mettiamo via le armi), o
cui sempre nei miei sogni ho affittato una stanza e che si è
divertita così tanto col mio gatto che mi scrive per chiedermi come
sta, e si arrabbia se non le rispondo, dopo essere diventata parte
del mio mondo espressivo ci resta, in miei autoritratti dal sapore
patinato con sue frasi sovraimposte che sono un po' un atto di accusa
verso un mondo dell'arte che ne avrebbe potuto fare un marchio, un
nome astratto, non si fosse imposta lei sparendo, perché l'arte oggi
ha paura di un corpo che non rientra nel linguaggio, fosse quello
mainstream o quello alternativo, che resta segnale di una catastrofe,
fosse quella di Hiroshima o quella dei tossici degli anni Ottanta,
oggi è tutto troppo educato, patinato, cinico, posso citare Queneau
ma non posso parlare di piaghe, e allora che libertà è, e poi
rimane il suo nome su questo progetto che evolve nel mio volto e nel
mio corpo nudo, che ancora non so del tutto bene come sfruttare, che
sfumature tirarne fuori, e quindi ogni tanto mi fermo perché ho
bisogno che altre immagini mi vengano dal profondo, e che pian piano
sedimentino in modo che le possa vedere nelle mie immagini
successive.
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Gian Paolo Galasi |
Penso
a D'Agata che va in Cambogia, passa il suo tempo a casa di
una taxi girl e fa foto come se fossero un diario intimo per spostare
l'asetticità e il cinismo del reportage in una zona dove io e
l'altro non siamo più connotati dai nostri documenti o dalle nostre attività, e dove può finalmente succedere di tutto, e ritrovo anche lì
la mia Francesca, nel 2013 finalmente, che finalmente può vivere di
vita propria, invece che essere pell mell erased, se il mondo
dell'arte se ne fotte perché fottersene del mondo dell'arte, come
del mondo piccolo ma non antico del mio macellaio, quello al cui
livello avrei dovuto abbassarmi quando scrivevo di self help
psichiatrico secondo i volontari cattolici ma di sinistra, riascolto
vecchie canzoni punk che amavo da ragazzo, e che parlano di no future
non credere a tutto quello che senti, ascoltati dentro invece, sono
dovuto passare attraverso la tradizione tibetana per capire cosa è
il nirvana ma ho dovuto rendermi conto che nessuna tradizione
religiosa ti parla veramente di questo nirvana. I tibetani ad esempio
ti consigliano di lasciar perdere il desiderio, perché il desiderio
ti fa attaccare ai corpi, alle apparenze, meglio immaginarli vecchi e
cadenti, a cosa ti stavi attaccando, ma la mia Francesca invece è
giovane e bella, ma sopratutto E' MORTA giovane e bella, promessa di
realizzazione di chissà quali esperienze intime importanti e
qualcuno non se ne è accorto o la ha lasciata fare perché aveva
paura e si è tirato indietro, e questa non è una apparenza, e
perché dovrei fare una cosa simile anche io in nome di un dio,
inch'allah? Mille dervisci cadrebbero sporchi del suo sangue che
continua a gridare SALVAMI ANCORA e se anche io fossi l'unico a
sentire non potrei comunque tirarmi indietro, è una questione di
sangue, il mio, this sunday pow wow love. Continuo quindi a mettere il mio
corpo sotto la mia macchina fotografica, concedendomi delle pause
solo per assimilare quello che deve essere assimilato, e ributtarlo
fuori dopo, quindi sono pause fisiologiche, non dettate dalla paura.
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Christiane F. |
Esco
di casa e faccio trenta foto in un'ora nel paese qui vicino, e poi ne
salvo diciannove e le viro in bianco e nero in un pomeriggio,
diventano un nuovo progetto dove ogni foto mi parla di qualcosa che
nelle foto non c'è, e nel frattempo guardo corpi di modelle
mainstream e alternative perché voglio vedere se, al di là
dell'arte tra virgolette, qualcosa dello spirito di Francesca, lo
Spirit of Nikopol di Enki Bilal, no love no sex procreate hygenics with eugenics, si è
traslato altrove, magari dove nessuno sta guardando, come mi ha
insegnato anni fa Eyal Sivan in un suo seminario per cineoperatori.
Avevo venti sei o venti sette anni quando mi sono disamorato della
Storia, io che la studiavo, perché a pochi chilometri da casa mia si
scoprivano le fosse comuni di una guerra etnica con corpi ridotti a
brandelli – ancora corpi, sempre e solo corpi – mentre dalle
biblioteche di tutta Europa la nostra Unione, la stessa per le
politiche della quale quando sono tornato da Londra sentivo gente che
si suicidava ogni giorno dal televisore per i debiti, corpi reali
resi pornografia dalla politica, e allora era meglio spegnere il televisore
e guardare le foto di Nobuyoshi Araki, era più onesto, sarebbe più
onesto anche per loro visto che imparerebbero cos'è l'arte senza
virgolette, un gesto più intimo e profondo, aveva vietato la
conservazione del Mein Kampf che proprio allora stava tornando a
essere al centro delle diatribe tra storici per via delle teorie di
Ernst Nolte: pare che a leggere bene Hitler non fosse spaventato
dagli ebrei ma dai bolscevichi, e che colpendo gli ebrei il dittatore
volesse proprio impedire la rivoluzione, pare addirittura che i campi
di sterminio fossero stati modellati sui gulag, per una paura così
forte che era diventata imitazione, ma quel divieto alla circolazione
di un libro ci aveva resi impotenti a studiare, si sarebbe detto sì
o no a Nolte per simpatia o antipatia, e allora che cos'era la
Storiografia? E poi quei corpi oltremare, in una terra che da sempre
aveva raccolto le tensioni e le frustrazioni d'Europa, la sua
incapacità a vivere le sue radici, questa Europa maschile e
patriarcale che ha sempre bisogno di staccarsi dal proprio dolore per
costruire e far affondare chi non ce la fa, non riconoscendoli più
nemmeno come figli, questo nelle nostre famiglie tanto quanto sul
piano sociale, e chi ha detto che dobbiamo smetterla di porci delle
domande al riguardo se ancora tutto funziona così, così abbandono
la Storia per non essere uno dei tanti Adolf Eichmann, che
soddisfazione sapere che i treni arrivano in orario senza poter
nemmeno guardare cosa trasportano, e sentirselo magari dire dopo
cinquant'anni da Die Zeitung o da Life. Dove sarei stato io, nel
frattempo?
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Nan Goldin |
Corpi
dicevo, ecco che mi metto a guardare i corpi delle modelle, mentre
lavoro al mio, perché non mi viene spontaneo lavorare su un mio
ritratto guardando 'la storia della fotografia' – ho dei libri
bellissimi a casa, ma non sono più uno studente, il desiderio di
sapere ho già visto da ragazzo che non passa più di lì, e poi
bisogna disimparare per essere, outside the trains don't run
on time cantavano i gang of four e Nan e
Larry e Antoine sono con me, come Francesca, la critica mi interessa
quando non dice che il passato è passato, e quindi inizio a cercarlo
dove l'intellettuale o la persona comune, che vive la realtà per
schemi e poi ne accusa l'intellettuale, come se
l'intellettuale giocasse a scopa bevendo il bianco, non guarda, non
tutti gli intellettuali sono come Heidegger, che sì, era fascista.
Vogue mi accetta come fotografo intanto, mi piace essere in uno spazio dove ha
sperimentato William Klein, per non parlare di Gordon Parks. Il mio
sguardo sul corpo non so nemmeno dire quanto sia diverso, è che ho
sempre e solo lavorato col mio, almeno fin'ora, e se dovessi lavorare
con un altro corpo vorrei che fosse attivo nel decidere come lo devo
riprendere, e che magari a un certo punto prendesse la macchina e fotografasse me, a tradimento. C'è un codice anche nell'erotismo, lo
spettatore è sempre in salvo, e il fotografo fa da tramite tra il
corpo della modella e il mai interrogabile desiderio dello
spettatore, sopratutto deve dare una cornice friendly ma mai essere
in mezzo, per quello mi piace Araki che invece tiene la mano alla
moglie malata che esala l'ultimo respiro e si fa fotografare dal
fratello, tutta la libertà che da Tinto Brass non avrete mai, perché
ci sono diversi tipi di repressione e lui a me non lo ha mai
raccontato dai suoi film, quindi mi mente. Scopro modelle che sono
anche fotografe, che intervistano i fotografi, come se quel codice
fosse qualcosa che comunque sta stretto, qualcosa da allargare quando
possibile, e questa cosa mi fa porre più domande che non Rosalind
Krauss o Susan Sontag, che invece hanno delle risposte e ti fanno
gravitare in un circuito dove tu impari, mentre Daido Moriyama quando
è a Shinjuku e fa fotografie si ferma a un distributore e si prende
una lattina di caffé freddo tra uno scatto e l'altro, perché
bisogna divertirsi anche.
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R.W. Fassbinder |
Scopro
modelle il cui lavoro mi fa pensare a Shirin Neshat, ad esempio, e
penso che in certi casi potrei voler lavorare con loro, al patto di
mantenere quel tentativo di uscire dal codice come vero. Potremmo
andare ad esempio in un posto dove sotto la finestra della camera da
letto o salotto dove stiamo facendo la sessione, ci sia sotto una
manifestazione dei No Tav. La mia modella potrebbe aprire la
finestra, nuda, e guardare quella gente tra i cordoni della polizia,
che devono farli sfollare, chissà cosa passerebbe per la nostra e la
loro testa, e chissà poi che reazione avrebbe lo spettatore. Proprio
in questi giorni ho sentito provenire dal profondo l'immagine di un
mondo dove la gente voterebbe di nuovo Priebke se sentisse il
desiderio di una pulizia etnica qualsiasi, sicura di poterlo poi accusare di
essere l'unico responsabile del proprio desiderio di farsi strappare
via, per non soffrire più – ma com'è possibile se non
abbrutendosi? - la radice del cuore. I nazisti non hanno rischiato di
vincere solo perché avevano delle armi, così come non hanno perso
solo perché gli americani avevano la bomba atomica. Ho rivisto Lola
di Fassbinder in questi giorni e quel bordello che è il cuore del
villaggio tedesco lo è veramente di ogni luogo umano. Ma in quel bordello si può sempre amare una donna reale, senza sradicarla per farla restare quello che è, in quel
territorio dove incontri l'altro mosso da un desiderio che però non
è quello che può essere monetizzato dal sapere o narrato da un
codice di rappresentazione del visivo, con qualcuno, lo spettatore,
sempre salvato e sempre infantilizzato, come se non fosse in grado di
farsi degli anticorpi o come se lo si dovesse prevenire dal farsi
degli anticorpi, perché allora magari qualcosa nell'economia del
biglietto al festival ci rimette, mentre il nostro cuore, per forza
di cose, è opaco, perché dentro di esso c'è tutto ciò che nasce e
tutto ciò che muore.
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Nobuyoshi Araki |
Il
cuore, si parla spesso del desiderio – ma il desiderio, anche il desiderio
di capire, non solo quello che muove la carne al di là della mente e
che per questo è più importante dei contenuti di una mente, perché li vivifica, può essere cooptato, lo sa chi spende
tre anni in università per fare ora qui in Italia una tesi ridicola
per volume e possibilità di approfondimento, oltre che di sbocco
lavorativo, purtroppo i Tibetani sono un popolo nomade e non sanno
in che modo raffinato noi occidentali ci sappiamo cazzeggiare col
desiderio – non si rovina più nessuno, nel senso che
nessuno più si auto-rovina, c'è sempre un interesse, come i
guidatori di pullman dell'ATM che si fanno di coca per reggere i
turni e non per evadere, il che significa che a nessuno è data la
possibilità di un percorso personale, che è il vero motivo per cui
dobbiamo essere in crisi in Europa, per quanto il nostro
cattolicesimo si affanni con un troppo codificato perdono, chissà
dov'è l'altro che ci perdona senza apporre una ipoteca sul nostro
cuore, ma fomentando in esso l'idea di un legame, se non lo cercate
non lo troverete mai – e anche coi mea culpa, non basta tutta la
loro millenaria e rispettabile saggezza, cuore di puttana quello
della civilizzazione, cuore bastardo, e dato che a tutti noi tocca
averci a che fare cerchiamo di proteggerci dalla morte facendo
'qualcosa', in solidarietà meccaniche. Meglio il dolore allora,
quello che spesso mi coglie nel fisico, allo stomaco, mi tende le
gambe, mentre una ragazza morta a ventidue anni mi accarezza la nuca
dall'oltretomba, dicendomi che io non l'ho rifiutata e che merito un
po' di riposo nei miei sogni, propedeutico, affinché io continui a
cercare, fuori da ogni certezza data, me stesso e lei.
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