La scelta. Scegliere o sapere scegliere o avere il coraggio di scegliere accettando tutte le conseguenze.
Può andare bene o andare male.
Alla fine l'amore questo è? Questa parola, "scelta", è qualcosa che ritorna in questi mesi. Grazie alla Mala e alla fatica che mi porta il progetto, complesso, perché il teatro è un'arte scomoda.. perché mi prende tempo? Fatica? Dedizione? O forse perché mi porta a scegliere. Ecco perché. Ogni giorno scelgo di essere a provare. Ho dovuto scegliere ogni giorno di essere in sala prova. Dopo il lavoro. La stanchezza. Gli affetti che nella maggior parte dei casi non comprendono. E sono gelosi di questa scelta. Non parlo solo di Diego... gli amici, gli affetti come mia madre, Sury, mio fratello e mio padre.. No. Mio padre in realtà no. Stranamente mio padre lo capisce. Un po' di più anche se mi guarda sempre un po' come fossi strana. Come quelle donne ragno incomprensibili e che fanno paura.
Suona e vede nell'arte e nell'esprimersi questa tensione all'infinito che vedo io. Creare è davvero l'unica arma di salvezza dell'essere umano. Si, ma il coraggio di..?
Scegliere. Io scelgo di fare arte e rinunciare al calore di una vita comoda. Al calore di un figlio tra le braccia, a quelle di un uomo la sera, dopo il lavoro. E vado a rifugiarmi in un seminterrato freddo. Tra le braccia di Elena che mi ama e mi raggiunge simbolicamente. Vado lì con il terrore del fallimento anche. Ma poi mi chiedo quale senso possa avere la mia vita se non questo. Se non questo. Quale? Non è utile ed è limitatamente concreta la mia scelta. Non è un palazzo. Né un'invenzione. Né la cura che salva dai tumori. Niente di tutto questo. Tangibile e utile. L'arte non lo è. E io non lo sono. Eppure.. c'è un annullarmi in questa scelta che va oltre i binari del sociale. Non vedo più le relazioni come prima. La famiglia. Gli uomini. Trovo raramente persone con cui relazionarmi. Da cui attingere. Spesso la solitudine è l'unica via.
Ora che tutto è sospeso, come in questi giorni di festa, sento l'angoscia e la solitudine di questa scelta. Che non è ancora completa. Perché non ho chiarito. Non chiarisco con Diego. Non chiarisco con chi mi ama. O dice di. Chissà cosa mai ameranno di me. Non di certo il mio aspetto. O non solo.
Ecco, la scelta non è ancora totale perché sento ancora di dovere chiarire. Chiarire la mia scelta a qualcuno che non potrà mai capirla. Loro restano a lottare o inconsciamente ad amare proprio il mio tentare di andare nell'oblio. Il mio non arrendermi alla banalità? E' diventare qualcosa che non sono che mi fa paura. Lì sento la paura di morire.
Scavo e scavo e cerco sguardi di amore. Anche con la Mala. Lei è forte e fragile nella sua forza. Ho messo in scena e creato un personaggio che indaga. Domanda. Nessuno riesce a rispondere.
Ma lei, il mio personaggio, la mia Mala, ora, o la ami o la odi. O la sposi o fuggi da lei. Impone una scelta.
Nella vita mi è successo spesso. Con Diego a targhe alterne. Con le amicizie o altri uomini che ho incontrato, pure..
Mi sono sempre chiesta cosa fosse. Sarà la domanda? O questa scelta? Vuoi vivere davvero o mentire per rimandare la vita fino alla morte? Questo domando come Mala ora. Ma prima lo facevo nella vita.
Lascio sia lei ora.
Dopo avere letto uno degli ultimi sms di Diego con un'altra donna, gli ho girato la schiena nel letto. E dopo essermi addormentata a fatica ho sognato l'universo. Il mio corpo nudo che si scioglieva nell'universo. Nel buio e tra le stelle. Diventavo latte e polvere di stelle.
E in questa sospensione c'era la musica di Dio. E i pensieri che mi facevano vedere tutto come molto più piccolo o comico effettivamente. Perché l'amore è creazione. Qualsiasi essa sia.
Che amore è questo? Me lo sono chiesta tante volte con Diego ubriaco, con lui che cerca altre donne.. con la sua distruzione che somiglia alla mia. O è la mia. Quella che ancora non mi fa fare la scelta in toto.
La scelta è dissolvermi nell'universo. Ci sono donne e uomini che lo fanno attraverso i figli. Forse.
E io ? Non ho paura di quel buio nell'universo. Girava tutto. E dissolvermi era la cosa più giusta. Il tempo giusto.
Eppure ho ancora paura di portare in fondo la scelta. Che è fatta. In fondo è stata fatta tanto tempo fa.
Dimenticata, ritrovata. Scegliere è il primo verbo dell'amore?
Le Comiche dell'Amore
domenica 27 dicembre 2015
domenica 6 dicembre 2015
Paura della solitudine nell'autenticità
Sono riuscita a dire che sono dentro un ruolo che non capisco più.
Più che a dire, a scrivere. La mia relazione con Diego sta' prendendo forza per lui. E più prende forza per lui e mi lega, più sento la mia verità asciugarsi.
Mi vuole vicina nel suo lavoro, nelle sue nevrosi. Corro da una parte all'altra di Milano per lui e poi per me.
Qualcosa non funziona. Ho sognato la morte. E in quel sogno c'eravamo io e lui. Suo padre. Sua madre. I genitori di lui morti. E tutte le mie parole. Le mie parole.
Mi ha portata in studio con lui. E' strano. Mi ha sempre detto che lì le donne non dovevano entrarci. Nel suo studio. Nel suo lavoro. E infatti ero l'unica donna. Nella sala di registrazione, ha fatto ascoltare alcuni pezzi ai musicisti. Io seduta in un angolo.
Luca Meneghello, uno dei chitarristi jazz più bravi d'Italia, registra un assolo su uno dei pezzi. Lo risentono e sentono gli altri. Fanno i complimenti a Diego per la composizione di una con: "Geniale l'idea dei fiati qui".
Abbasso lo sguardo. Diego mi prende e dice: "Beh, l'idea non è mia, ma di Annalisa". In un orecchio mi dice: "Non prendo più le tue idee.. diamo a Cesare quel che è di Cesare".
In passato è stata una delle lotte. Prendeva le mie idee per usarle per se stesso. Per farsi importante con le altre donne anche. Invece ora il cambiamento. A cui non sono abituata.
Poi parlo con Giuliano per i video da fargli: "Curali tu.. pensaci tu.. mi fido di te". E così gli curo l'immagine. Settimana prossima tornerò in studio con lui a riprenderlo, a decidere che video fare. A curarlo in toto.
Solo due anni fa sarei stata al settimo cielo. Eppure qualcosa è cambiato. Ho partorito. E mia figlia mi sta' aspettando. Lui mi toglie energie e non è mai venuto a vedermi.
Più mi allontano, più mi prende. Come se percepisse ora la mia presenza artistica e il mio femminile, quel femminile come forza anche per lui.
Eppure, la pelle se ne sta' andando. Non è caduta del tutto, ma sotto c'è già quella nuova.
Evidentemente ho ancora paura perché non la lascio cadere. La rimetto su. La vecchia me.
Quella che metteva il desiderio dell'altro prima del proprio. Eppure mi stanco a lavare i piedi di Diego. Ora. E di qualsiasi altro uomo.
Non guardo più il suo cellulare. Non m'importa delle sue donne. So che è un vizio che non passerà mai. Perché ha un'anima dipendente. Così come so che lui mi ama di più. E che sta' diventando dipendente da me. Non fa più niente senza un mio ascolto. La spinta energetica e d'amore della Diva sono io.
Eppure sento di non essere io.
In quel ruolo di assistente/badante, non riesco più a stare.
E lui mi fa scenate di gelosia. Per altri artisti. Mi vuole rinchiudere con lui nelle sue gabbie dorate.
Sento solo una voglia di fuggire e una sorta di tristezza per la mancanza di coraggio che sento ancora.
Eppure io vorrei solo essere sostenuta ed amata per la mia diversità. Da lui come da mio padre.
Ed in questo tentativo perdo la mia essenza perché non potranno mai veramente capirmi. Hanno troppe paure, troppa paura di vivere ancora per comprendere la mia sete. Che fa paura. Fa solo paura ai più.
Così come ancora a me fa paura la solitudine. Di quest'essenza artistica. Perché la maggior parte delle persone, degli uomini è abituata ad amare la sicurezza. La comodità di una persona che si annulla o fa compromessi con il desiderio dell'altro.
Invece io vorrei essere amata solo per la mia autentica diversità. Accettare questa assunzione, implica solitudine. Una grande solitudine.
E ancora mi fa paura.
Più che a dire, a scrivere. La mia relazione con Diego sta' prendendo forza per lui. E più prende forza per lui e mi lega, più sento la mia verità asciugarsi.
Mi vuole vicina nel suo lavoro, nelle sue nevrosi. Corro da una parte all'altra di Milano per lui e poi per me.
Qualcosa non funziona. Ho sognato la morte. E in quel sogno c'eravamo io e lui. Suo padre. Sua madre. I genitori di lui morti. E tutte le mie parole. Le mie parole.
Mi ha portata in studio con lui. E' strano. Mi ha sempre detto che lì le donne non dovevano entrarci. Nel suo studio. Nel suo lavoro. E infatti ero l'unica donna. Nella sala di registrazione, ha fatto ascoltare alcuni pezzi ai musicisti. Io seduta in un angolo.
Luca Meneghello, uno dei chitarristi jazz più bravi d'Italia, registra un assolo su uno dei pezzi. Lo risentono e sentono gli altri. Fanno i complimenti a Diego per la composizione di una con: "Geniale l'idea dei fiati qui".
Abbasso lo sguardo. Diego mi prende e dice: "Beh, l'idea non è mia, ma di Annalisa". In un orecchio mi dice: "Non prendo più le tue idee.. diamo a Cesare quel che è di Cesare".
In passato è stata una delle lotte. Prendeva le mie idee per usarle per se stesso. Per farsi importante con le altre donne anche. Invece ora il cambiamento. A cui non sono abituata.
Poi parlo con Giuliano per i video da fargli: "Curali tu.. pensaci tu.. mi fido di te". E così gli curo l'immagine. Settimana prossima tornerò in studio con lui a riprenderlo, a decidere che video fare. A curarlo in toto.
Solo due anni fa sarei stata al settimo cielo. Eppure qualcosa è cambiato. Ho partorito. E mia figlia mi sta' aspettando. Lui mi toglie energie e non è mai venuto a vedermi.
Più mi allontano, più mi prende. Come se percepisse ora la mia presenza artistica e il mio femminile, quel femminile come forza anche per lui.
Eppure, la pelle se ne sta' andando. Non è caduta del tutto, ma sotto c'è già quella nuova.
Evidentemente ho ancora paura perché non la lascio cadere. La rimetto su. La vecchia me.
Quella che metteva il desiderio dell'altro prima del proprio. Eppure mi stanco a lavare i piedi di Diego. Ora. E di qualsiasi altro uomo.
Non guardo più il suo cellulare. Non m'importa delle sue donne. So che è un vizio che non passerà mai. Perché ha un'anima dipendente. Così come so che lui mi ama di più. E che sta' diventando dipendente da me. Non fa più niente senza un mio ascolto. La spinta energetica e d'amore della Diva sono io.
Eppure sento di non essere io.
In quel ruolo di assistente/badante, non riesco più a stare.
E lui mi fa scenate di gelosia. Per altri artisti. Mi vuole rinchiudere con lui nelle sue gabbie dorate.
Sento solo una voglia di fuggire e una sorta di tristezza per la mancanza di coraggio che sento ancora.
Eppure io vorrei solo essere sostenuta ed amata per la mia diversità. Da lui come da mio padre.
Ed in questo tentativo perdo la mia essenza perché non potranno mai veramente capirmi. Hanno troppe paure, troppa paura di vivere ancora per comprendere la mia sete. Che fa paura. Fa solo paura ai più.
Così come ancora a me fa paura la solitudine. Di quest'essenza artistica. Perché la maggior parte delle persone, degli uomini è abituata ad amare la sicurezza. La comodità di una persona che si annulla o fa compromessi con il desiderio dell'altro.
Invece io vorrei essere amata solo per la mia autentica diversità. Accettare questa assunzione, implica solitudine. Una grande solitudine.
E ancora mi fa paura.
domenica 22 novembre 2015
Il coraggio della propria diversità
Il coraggio della mia diversità.E' questo quello che manca. "Lisa, non aprirti a loro. Se ancora non sei pronta, frequentali senza aprirti: non sei una donna, ma un'artista!".C'è una sofferenza infinita dietro questa incapacità. Perché c'è bisogno di dividere?La mia vera anima è chiara, è così chiara agli altri e non a me. E' come se dovessi sempre chiedere scusa o inventare scuse per farmi accettare. O uscire di nascosto per raggiungere il mio desiderio. Mentre lui dorme, come quando dormiva mio padre.E' così scontato e semplice da capire nella razionalità, ma nei meccanismi pratici della vita quotidiana ancora mento. Mento con chi non può vedermi.E mi faccio del male con loro perché non sono degna di un amore vero ed autentico.Non c'è protezione.Diego dice che sono la sua compagna, eppure io non mi sento tale. Cosa significa essere compagna per lui? Gli sto' dietro e curo il suo lavoro. Oppure lavo le sue tazze o i piatti del giorno che non ha voluto lavare perché non sa farlo. Non è abituato.Non la so più fare la Maria Maddalena. Non li lavo più i piedi a Gesù. Questa devozione è qualcosa che mi da' un senso di morte. Di chiuso. Finito.Il CD è metà fatto anche di mie idee musicali oltre ai tre testi che hanno scelto Bungaro e Ivan Segreto.. Dice: "Cosa vuoi di più? I tuoi testi li hanno scelti tra gli altri come i più belli?". Cosa voglio di più?Non ammetterà mai che sono compagna in quello per lui. Dirà che sono una percentuale, come gli altri.Poi cerco su google come una stupida di Camille Claudel e finisco su Franca Rame e tutte, tutte hanno la mia stessa sofferenza.. Camille per anni lavora ed ama Rodin. Crea con lui e fanno l'amore in tutti i modi possibili in cui un uomo ed una donna possono farlo, ma poi c'è un maschile che non sa mettere da parte il proprio ego e la paura. Paura di cosa? Di perdere un potere? Illusorio?Perché nessuno potrà mai togliermi dalla testa che non è l'eccesso di queste donne l'unica colpa del loro fallimento ( se di fallimento si possa parlare per donne come Franca Rame o Camille), ma l'incontro con un maschile che non sa amare la diversità del femminile.Che un artista possa stare con una donna più semplice, più a suo servizio, è una regola che nasce già da un fallimento umano. Così come che una donna artista debba rinunciare al suo essere donna è un altro fallimento.Sarà utopia, ma perché rinunciare al coraggio della propria diversità per incontrarne un'altra che dia quell'amore in più?Un uomo che ho rincorso per anni ora vuole solo me e mi chiama compagna e dietro questa definizione vedo solo la morte dell'amore autentico.E' veramente quel che voglio?Ieri sera ho visto The Lobster. Per quanto sia un film incasinato e pretenzioso nel progetto, l'idea è interessante. Questa costrizione alla coppia.. Queste regole del più forte.. Questo dover essere in coppia per poter essere amato, accettato e curato. Coperture per un sociale che per inglobarti deve riconoscerti. Escludendo il diverso dal proprio mondo di colori.Se ti assumi il coraggio della tua identità potrai incontrare critiche o incomprensioni, però sarà l'unico modo per poter essere veramente te stesso e vivere la vita che davvero vuoi.Che è una frase meravigliosa, ma dove si celi questo coraggio ancora non so..
mercoledì 4 novembre 2015
Posso darti quello che desideri?
E' nata.
E' stata una giornata lunga. Domenica mattina mi sono svegliata terrorizzata nella mia stanza di albergo. In pieno centro a Torino.
Avevo lasciato i pesci per la scena nel frigo del bar dell'hotel. "La prego. Ne abbia cura. Mi servono per lo spettacolo".
E' comico il mio rapporto con i pesci anche nel reale. Le sono andata a comprare la mattina. In pescheria. " Due orate.. si.. queste qui..". Le ho scelte. Una è Clark Gable, l'altra è per il mio piccolo attore.
"Queste sono favolose in forno.." dice il pescivendolo.
"Ah no.. ma io non le mangio.. mi servono in teatro.. recitano con me..".
Mi ha guardata proprio come se fossi matta. Mi ha anche fatto lo sconto. Anche in albergo. A Torino. Ma non importa. Si, magari un po' lo sono, ma magari meno di chi le mangia.. E' sempre tutto relativo. Come i concetti che dico nel mi spettacolo.
Vado in camera. Sono un po' nervosa. Dormo male. Ho il reflusso. Come le donne incinta.
La mattina mi alzo presto e vado a correre. Una doccia veloce e poi lascio la camera.
Dopo aver pagato dico: "Ho le mie orate nel vostro frigo bar. Le ho lasciate al suo collega ieri notte".
Il tipo alla reception risponde serio e rispettoso: " Ah si.. certo.. gliele prendo subito". E me le porta impacchettate, come se fossero gioielli. E lo sono. "Bravo.. - penso -.. non ti ucciderò..". Ragiono già come la mia Mala.
Arrivo in teatro in orario. Elena è iperattiva come sempre. Un po' nervosa, ma carica. Io sono più trattenuta. So bene che vedermi così la terrorizza, ma mi sto' concentrando. A mio modo.
Facciamo le luci. Poi la generale. E nel preparare la scena mi mette i pesci che ha recuperato in una pescheria. Completamente marci. Sono solo per la generale. "Per stasera avrai cinque pescioni da dare al pubblico. Li cuciamo insieme dopo".
La generale va. Io trattengo. Per esplodere in serata. Sono terrorizzata. Devo tenere da sola il pubblico per un'ora. Non sono mai stata da sola in scena. Così tanto.. E' un salto. Un bel salto.
Finita la nostra prova, lasciamo la sala alla compagnia dopo di noi.
Andiamo in un caffè. Elena parla e parla. Agitata. Io sono trattenuta. Sempre. Ascolto. "Lisa, ma tutto ok?".
"Si, sto' cercando la mia linea di basso.. il dolore sotterraneo su cui improvvisare per un'ora".
Torniamo in teatro. Cerco una stanza in Cavallerizza. E dopo uno spuntino iniziamo il training. E lì lei capisce che ci sono.
Mi vesto, mi trucco, mi pettino. Poi lei porta i pesci. Sono enormi. E puzzano. Tantissimo. Ho quasi il vomito e penso al pubblico: "Come reagirà?".
Io mi abituo alla puzza. Alla puzza d'amore. Alla puzza che tutti nascondiamo nella nostra borghesia.. E cucio i pesci con il mio filo blu. Mi basta poco e sono già lei. Mancano 20 minuti allo spettacolo. Scendiamo in teatro. E prepariamo la scena. Metto Clark nel mucchio di pesci puzzolenti e avvolti in una rete e nascondo il pesce per il piccolo Davide.
Poi Elena mi lascia lì. Con uno dei miei pesci enormi da cucire. Entro in me ed inizio le domande con cui aprirò lo spettacolo.
Elena apre la porta del teatro ed entrano gli spettatori.. Come un leone mi butto su di loro..
"Posso darti quello che desideri? Vuoi farti di me? Dei miei odori? Io sono un'innocente?". Alcuni ragazzi ridono. Uno mi risponde. E' il primo con cui interagisco e gli regalo il pesce. "E' ancora viva". Lui lo prende e resta a fissarmi. Seduto. Incredulo e catturato.
E' iniziata... Distribuisco gli altri pesci. Cerco chi ha paura. Chi non vuole essere guardato. E parlo con loro. Piango. Rido. Faccio piangere e poi ridere. Li abbraccio. Gli parlo in un orecchio. Ad ognuno. E poi torno nei miei monologhi. Ai miei coltelli. Al sangue e alle mie vittime.
E' una montagna russa. Per me. Per loro.
Non vola una mosca. Sono con me. Io non sono più io. Faccio l'amore con loro. Mi do' a loro e loro mi prendono. Mi vogliono. Assetati del sangue vivo che metto lì. In scena. Senza paura. Sono nuda.
Elena in regia anche è catturata e dimentica una luce.. Ma andiamo avanti. E' magia. Dio mi sta' attraversando.
E' l'ultima scena. Buio. Poi luce. Io ed il bambino. Con il pesce e la domanda.
"Posso darti quello che desideri?". E il piccolo mi guarda. Sono madre. Lei è nata. O rinata. Tra i pesci morti che ricucio.
E l'infanzia violenta che denuncio. Non ho più paura.
E' stata una giornata lunga. Domenica mattina mi sono svegliata terrorizzata nella mia stanza di albergo. In pieno centro a Torino.
Avevo lasciato i pesci per la scena nel frigo del bar dell'hotel. "La prego. Ne abbia cura. Mi servono per lo spettacolo".
E' comico il mio rapporto con i pesci anche nel reale. Le sono andata a comprare la mattina. In pescheria. " Due orate.. si.. queste qui..". Le ho scelte. Una è Clark Gable, l'altra è per il mio piccolo attore.
"Queste sono favolose in forno.." dice il pescivendolo.
"Ah no.. ma io non le mangio.. mi servono in teatro.. recitano con me..".
Mi ha guardata proprio come se fossi matta. Mi ha anche fatto lo sconto. Anche in albergo. A Torino. Ma non importa. Si, magari un po' lo sono, ma magari meno di chi le mangia.. E' sempre tutto relativo. Come i concetti che dico nel mi spettacolo.
Vado in camera. Sono un po' nervosa. Dormo male. Ho il reflusso. Come le donne incinta.
La mattina mi alzo presto e vado a correre. Una doccia veloce e poi lascio la camera.
Dopo aver pagato dico: "Ho le mie orate nel vostro frigo bar. Le ho lasciate al suo collega ieri notte".
Il tipo alla reception risponde serio e rispettoso: " Ah si.. certo.. gliele prendo subito". E me le porta impacchettate, come se fossero gioielli. E lo sono. "Bravo.. - penso -.. non ti ucciderò..". Ragiono già come la mia Mala.
Arrivo in teatro in orario. Elena è iperattiva come sempre. Un po' nervosa, ma carica. Io sono più trattenuta. So bene che vedermi così la terrorizza, ma mi sto' concentrando. A mio modo.
Facciamo le luci. Poi la generale. E nel preparare la scena mi mette i pesci che ha recuperato in una pescheria. Completamente marci. Sono solo per la generale. "Per stasera avrai cinque pescioni da dare al pubblico. Li cuciamo insieme dopo".
La generale va. Io trattengo. Per esplodere in serata. Sono terrorizzata. Devo tenere da sola il pubblico per un'ora. Non sono mai stata da sola in scena. Così tanto.. E' un salto. Un bel salto.
Finita la nostra prova, lasciamo la sala alla compagnia dopo di noi.
Andiamo in un caffè. Elena parla e parla. Agitata. Io sono trattenuta. Sempre. Ascolto. "Lisa, ma tutto ok?".
"Si, sto' cercando la mia linea di basso.. il dolore sotterraneo su cui improvvisare per un'ora".
Torniamo in teatro. Cerco una stanza in Cavallerizza. E dopo uno spuntino iniziamo il training. E lì lei capisce che ci sono.
Mi vesto, mi trucco, mi pettino. Poi lei porta i pesci. Sono enormi. E puzzano. Tantissimo. Ho quasi il vomito e penso al pubblico: "Come reagirà?".
Io mi abituo alla puzza. Alla puzza d'amore. Alla puzza che tutti nascondiamo nella nostra borghesia.. E cucio i pesci con il mio filo blu. Mi basta poco e sono già lei. Mancano 20 minuti allo spettacolo. Scendiamo in teatro. E prepariamo la scena. Metto Clark nel mucchio di pesci puzzolenti e avvolti in una rete e nascondo il pesce per il piccolo Davide.
Poi Elena mi lascia lì. Con uno dei miei pesci enormi da cucire. Entro in me ed inizio le domande con cui aprirò lo spettacolo.
Elena apre la porta del teatro ed entrano gli spettatori.. Come un leone mi butto su di loro..
"Posso darti quello che desideri? Vuoi farti di me? Dei miei odori? Io sono un'innocente?". Alcuni ragazzi ridono. Uno mi risponde. E' il primo con cui interagisco e gli regalo il pesce. "E' ancora viva". Lui lo prende e resta a fissarmi. Seduto. Incredulo e catturato.
E' iniziata... Distribuisco gli altri pesci. Cerco chi ha paura. Chi non vuole essere guardato. E parlo con loro. Piango. Rido. Faccio piangere e poi ridere. Li abbraccio. Gli parlo in un orecchio. Ad ognuno. E poi torno nei miei monologhi. Ai miei coltelli. Al sangue e alle mie vittime.
E' una montagna russa. Per me. Per loro.
Non vola una mosca. Sono con me. Io non sono più io. Faccio l'amore con loro. Mi do' a loro e loro mi prendono. Mi vogliono. Assetati del sangue vivo che metto lì. In scena. Senza paura. Sono nuda.
Elena in regia anche è catturata e dimentica una luce.. Ma andiamo avanti. E' magia. Dio mi sta' attraversando.
E' l'ultima scena. Buio. Poi luce. Io ed il bambino. Con il pesce e la domanda.
"Posso darti quello che desideri?". E il piccolo mi guarda. Sono madre. Lei è nata. O rinata. Tra i pesci morti che ricucio.
E l'infanzia violenta che denuncio. Non ho più paura.
martedì 3 novembre 2015
L'amore in più
Ci sono cose che non so dirti
Sarà questa fragilità
O questa paura di vivere
Che tanto ti fa ridere
E questo "amore"
Che mi fa arrabbiare
O sarà un bimbo che grida
Appena arriva il buio.
E ti cerco nel sonno
La mia testa sulla tua schiena
Le mie dita risucchiate
nella tua calda creatività
lì mi nascondo ogni notte
Per trovare l' amore in più.
Che manca nel mosaico
della mia umanità.
E' facile scrivere.
La nostra canzone
Un figlio da ascoltare
quando io non sarò più lì,
o tu qui.
E lei viaggerà libera
Ma è facile scrivere.
E le parole sono parole.
O solo parole.
lunedì 19 ottobre 2015
Non sono mai stata protetta
L'uomo senza dubbi.
Sto' facendo le prove per uno spettacolo che non amo. Colori e faccine. Finto. Tutto finto. Eppure non so liberarmi. Non so dire: "Mi fa cagare!". E mi annoia anche. E l'arte non da' soldi e non annoia. Ma tocca, spaventa, ti ritorce dentro.. le viscere iniziano ad esistere e a svegliarsi.
Invece in questo spettacolo mi sento in gabbia.
Poi gli scrivo. E' lontano. Non so se vorrà vedermi. Là a Barcellona. La città del sole. Della cattedrale vertiginosa. Ogni volta che ci salivo sopra sentivo la testa girare, e l'aria sospesa nel mio corpo, con il vento che penetrava e l'amore dei suoi occhi. Pepe. L'uomo per cui non ho mai avuto dubbi. Con lui su quella cattedrale toccavo Dio.
Così vado da lui. Lo incontro. Cerco il suo conforto anche se ci siamo lasciati da dieci anni. Lui è freddo. Come da quando ha deciso che la separazione affettiva e "dimenticare" fosse l'unica soluzione. Al dolore. Ma sento che quella è paura. E allora cerco l'origine di quell'amore.
Non ho mai avuto dubbi per lui. Di amarlo senza condizioni. E che fosse giusto.
Non ho risposte. Ho solo la certezza che è stato così. Che fu così.
Ma poi ho un dente che mi fa male ed Elena mi cura.
Quando mi sveglio ci sono solo io nel buio. Il corpo di un uomo altro da Pepe. Poi resto sola.
Dormo sola. Nel mattino che mi accoglie. Sono solo sogni che rispondono ai messaggi di Diego di scuse.. Scuse su scuse in un momento in cui non ho più forza per lui.
Promesse.. promesse. Mentre cerco conforto nel corpo di un altro. Da lui e da me.
Me ne sto' andando definitivamente da lui e mi manda composizioni per un CD che sta' tentando di partorire da quando lo conosco.
Ma in fondo non gli importa di me. Ha solo paura che io non sia più di sua proprietà. E che possa splendere senza di lui.
Il suo volermi controllare sta' diventando sempre più penalizzante. Mi sta' asciugando.
Venerdì sera dopo le prove ancora.. i suoi attacchi nell'alcool. E il suo tentativo di farmi sentire malata perché faccio arte e teatro. Perché sto' diventando sempre più indipendente da lui artisticamente, più brava. E non ho paura degli insuccessi come li ha lui. Perché per me l'arte è vita. Per lui affermazione di un "ego" ancora. O chissà cosa..
Non ho paura della frustrazione di non apparire sul cartellone di un "grande teatro" dal momento che il teatro in quanto tale è morto. Nei grandi teatri passano lo specchio di ciò che la società vuole ora. O la scia di un mercato che intrattiene, ma non prende e non da'. Passa per la televisione e per una comunicazione che non parla. Il dolore è sotto la tecnica e immagini che usano sempre più tecnologie dietro cui ci si nasconde.
E per me il teatro è l'umano che parla nella sua nudità ad un altro che vuole ascoltare la sua verità e la sua ferita.
Ho imparato ad attaccare e ad usare le parole di Diego come motivi per amarlo sempre meno. Sempre meno. Come è successo con Giovanni. Con Mattia. E con tutte le persone a cui ho dato una sincerità imperfetta, ma onesta. Chiedevo banalmante di comprendere l'incomprensione della mia diversità.
Ma almeno sto' imparando ad amare meno chi mi fa del male. Perché chi ti ama, resta. Davvero.
Per anni ho compreso. Accettato. Non mi sono mai realmente arrabbiata. Ho solo covato un rancore latente per mio padre. Nel silenzio. E per mia madre che non c'era.
"Io non sono mai stata protetta ?". Dice così Paolo.
Era la frase di un sogno. Tento di divagare, ma poi piango. Si. Sono diventata io protettiva per raggiungere la protezione materna che non poteva più esserci. Ma non sono mai stata protetta. Il possesso e la gelosia di mio padre non era protezione. Erano le sue paure. Era lui su di me. L'assenza di mia madre era la sua malattia. Sono solo fuggita e ho rimpiazzato concetti, come la protezione. Dimenticandomi di me. Di trovarmi. Di capirmi.
E poi torna l'evento. E piango. "Voglio solo dimenticarlo. A cosa serve? So che c'è stato. Che mi ha fatto del male e mia madre non c'era a proteggermi da lui. Ne ho parlato tanto anche nell'altra mia analisi. Ma non serve. Ci sono ferite che restano. Possiamo solo conviverci o tentare di farci meno male e trasformare quel dolore". Eppure piango. Perché penso allo scempio che ho fatto della mia vita. A quella bimba che ancora grida.
Fare i genitori è la cosa più difficile del mondo. Si pensa di essere padre e madre in base al ruolo che viene tramandato. E si ama secondo quello che la madre, la nonna, la trisnonna nei secoli dei secoli ha tramandato. E invece è più complesso o libero di così. Ogni figlio è una vita a sé. Diversa. Ed unica. Non la nostra proiezione. Non il rimando dei nostri insuccessi. O il tentativo di riappropriarsi di noi attraverso la vita di un figlio.
Dovremmo essere così evoluti da sapere ascoltare. Di tenere come un tesoro la materia viva e nuova tra le mani e guidarla nella sua vita indipendente.
Come fa uno scultore con una sua statua. Come fa uno scrittore con una pagina bianca. Come tento di fare io con lei. Per toglierla da me. Partorirla e lasciarla vivere diversa da me. Senza un controllo. E amarla nella sua diversa imperfezione.
Sto' facendo le prove per uno spettacolo che non amo. Colori e faccine. Finto. Tutto finto. Eppure non so liberarmi. Non so dire: "Mi fa cagare!". E mi annoia anche. E l'arte non da' soldi e non annoia. Ma tocca, spaventa, ti ritorce dentro.. le viscere iniziano ad esistere e a svegliarsi.
Invece in questo spettacolo mi sento in gabbia.
Poi gli scrivo. E' lontano. Non so se vorrà vedermi. Là a Barcellona. La città del sole. Della cattedrale vertiginosa. Ogni volta che ci salivo sopra sentivo la testa girare, e l'aria sospesa nel mio corpo, con il vento che penetrava e l'amore dei suoi occhi. Pepe. L'uomo per cui non ho mai avuto dubbi. Con lui su quella cattedrale toccavo Dio.
Così vado da lui. Lo incontro. Cerco il suo conforto anche se ci siamo lasciati da dieci anni. Lui è freddo. Come da quando ha deciso che la separazione affettiva e "dimenticare" fosse l'unica soluzione. Al dolore. Ma sento che quella è paura. E allora cerco l'origine di quell'amore.
Non ho mai avuto dubbi per lui. Di amarlo senza condizioni. E che fosse giusto.
Non ho risposte. Ho solo la certezza che è stato così. Che fu così.
Ma poi ho un dente che mi fa male ed Elena mi cura.
Quando mi sveglio ci sono solo io nel buio. Il corpo di un uomo altro da Pepe. Poi resto sola.
Dormo sola. Nel mattino che mi accoglie. Sono solo sogni che rispondono ai messaggi di Diego di scuse.. Scuse su scuse in un momento in cui non ho più forza per lui.
Promesse.. promesse. Mentre cerco conforto nel corpo di un altro. Da lui e da me.
Me ne sto' andando definitivamente da lui e mi manda composizioni per un CD che sta' tentando di partorire da quando lo conosco.
Ma in fondo non gli importa di me. Ha solo paura che io non sia più di sua proprietà. E che possa splendere senza di lui.
Il suo volermi controllare sta' diventando sempre più penalizzante. Mi sta' asciugando.
Venerdì sera dopo le prove ancora.. i suoi attacchi nell'alcool. E il suo tentativo di farmi sentire malata perché faccio arte e teatro. Perché sto' diventando sempre più indipendente da lui artisticamente, più brava. E non ho paura degli insuccessi come li ha lui. Perché per me l'arte è vita. Per lui affermazione di un "ego" ancora. O chissà cosa..
Non ho paura della frustrazione di non apparire sul cartellone di un "grande teatro" dal momento che il teatro in quanto tale è morto. Nei grandi teatri passano lo specchio di ciò che la società vuole ora. O la scia di un mercato che intrattiene, ma non prende e non da'. Passa per la televisione e per una comunicazione che non parla. Il dolore è sotto la tecnica e immagini che usano sempre più tecnologie dietro cui ci si nasconde.
E per me il teatro è l'umano che parla nella sua nudità ad un altro che vuole ascoltare la sua verità e la sua ferita.
Ho imparato ad attaccare e ad usare le parole di Diego come motivi per amarlo sempre meno. Sempre meno. Come è successo con Giovanni. Con Mattia. E con tutte le persone a cui ho dato una sincerità imperfetta, ma onesta. Chiedevo banalmante di comprendere l'incomprensione della mia diversità.
Ma almeno sto' imparando ad amare meno chi mi fa del male. Perché chi ti ama, resta. Davvero.
Per anni ho compreso. Accettato. Non mi sono mai realmente arrabbiata. Ho solo covato un rancore latente per mio padre. Nel silenzio. E per mia madre che non c'era.
"Io non sono mai stata protetta ?". Dice così Paolo.
Era la frase di un sogno. Tento di divagare, ma poi piango. Si. Sono diventata io protettiva per raggiungere la protezione materna che non poteva più esserci. Ma non sono mai stata protetta. Il possesso e la gelosia di mio padre non era protezione. Erano le sue paure. Era lui su di me. L'assenza di mia madre era la sua malattia. Sono solo fuggita e ho rimpiazzato concetti, come la protezione. Dimenticandomi di me. Di trovarmi. Di capirmi.
E poi torna l'evento. E piango. "Voglio solo dimenticarlo. A cosa serve? So che c'è stato. Che mi ha fatto del male e mia madre non c'era a proteggermi da lui. Ne ho parlato tanto anche nell'altra mia analisi. Ma non serve. Ci sono ferite che restano. Possiamo solo conviverci o tentare di farci meno male e trasformare quel dolore". Eppure piango. Perché penso allo scempio che ho fatto della mia vita. A quella bimba che ancora grida.
Fare i genitori è la cosa più difficile del mondo. Si pensa di essere padre e madre in base al ruolo che viene tramandato. E si ama secondo quello che la madre, la nonna, la trisnonna nei secoli dei secoli ha tramandato. E invece è più complesso o libero di così. Ogni figlio è una vita a sé. Diversa. Ed unica. Non la nostra proiezione. Non il rimando dei nostri insuccessi. O il tentativo di riappropriarsi di noi attraverso la vita di un figlio.
Dovremmo essere così evoluti da sapere ascoltare. Di tenere come un tesoro la materia viva e nuova tra le mani e guidarla nella sua vita indipendente.
Come fa uno scultore con una sua statua. Come fa uno scrittore con una pagina bianca. Come tento di fare io con lei. Per toglierla da me. Partorirla e lasciarla vivere diversa da me. Senza un controllo. E amarla nella sua diversa imperfezione.
lunedì 12 ottobre 2015
La polvere della verità
Sono a casa. In Liguria. Nella casa dove sono cresciuta. In via Giovanni Bosco. Era una casa bianca che mio nonno aveva comprato appena in costruzione.
Mi piaceva quella casa. Anche se non avevo una mia camera, ma dovevo condividere gli spazi con mio fratello.
La mia scuola di musica era venuta anche a Spezia. Ci andava mio padre e poi per qualche strana ragione aveva iniziato ad andarci anche mio zio.
Piove. Sono grande già, l'età di adesso, ma è come se fossi tornata indietro nel tempo. Ci sono luci rosse nel cielo. Il cielo rosso dei tramonti e delle albe. Io ho un vestito bianco e sono a piedi nudi. In casa giro sempre a piedi nudi.
Ma anche in Liguria. Mi piaceva da bambina. Mia madre dal terrazzo mi dice di andare a comprare qualcosa dalla lattaia. E io non so perché ma ho paura di vederla. Dopo tanti anni.
Tuona. Avevo sognato tanti anni fa un diluvio, il diluvio che poi venne a Vernazza.
C'è sempre quest'acqua. Tanta acqua.
Rientro con un pacchettino e vedo mio zio uscire dal portone. Ora ci abitano loro lì, ma io sono confusa ancora. Tra passato e presente. Ha una borsa e mi dice che va anche lui lì. Che avrà la mia insegnante di canto in Nam. Gli dico di dirle che è mio zio. "Magari ti tratta bene".
Poi vado con lui. Per seguirlo. Aiutarlo. In questa mia modalità di essere madre dei grandi.
Protettiva. Non sono mai stata protetta.
Siamo nella sala attesa della scuola. Ci sono tutti gli insegnanti. Ma la sala d'attesa è in realtà quella di un albergo.
Devo salire. Nell'ascensore ci sono due uomini. Uno di questi è un noto regista e attore. Mi sembra Verdone. E la cosa mi fa ridere. Ha un cellulare e mi chiede un aiuto per alcune applicazioni.
Resto alcuni giorni in quell'albergo. L'amicizia con il regista diventa sempre più stretta e di nutrimento reciproco.
Ama prospettive diverse. E m'invita un giorno a stare fuori. Su dei letti sospesi. Sospesi su dei carrelli. Usciamo dalla finestra per raggiungere i letti. Ognuno il suo letto.
Ho sempre avuto paura dell'altezza. Ma lì con lui no. Poi lui si avvicina e mi fa vedere altre cose al telefonino. Ci sporgiamo un po' e io ho paura che lui cada. Ma sento che lui non ne ha. E mi tranquillizzo.
Poi mi sdraio e d'impeto faccio un movimento vivace e repentino. Uno dei miei. E il mio letto sospeso si muove e sbatte contro il suo. Lui cade e rimbalza.
Io vedo tutto. Dall'alto vedo tutto. Ma lui non so neanche più se sia un lui, ma una lei. Eppure io la vedo come fosse un uomo.
Lui è a terra. E' vivo, ma non sa più se riesce a muovere le gambe. Arriva l'ambulanza. Mi sento osservata e come al solito ho paura di avere rovinato tutto. Mi chiedo cosa accadrà. Se perderò il sogno.
Il buio e mi risveglio in una casa calda. C'è il suo amico che ride. Io sono lì e vedo che a letto c'è lui. Il regista. Che però ha un altro volto. Non è Verdone è un altro uomo, ma è più asciutto. Ha gli occhi diversi.
Vado a letto da lui. Lo abbraccio. Piango. Lui ride e mi abbraccia. Sento tanto calore. Amore. Comprensione. Non l'ho fatto apposta. Lui lo sa.
C'è questa luce rossa. Di un fuoco. Il rosso di qualcosa che avvolge. Di un amore che cerco in una comprensione.
Mi addormento tra le sue braccia. Poi capisco che quella casa è un ospedale o una specie di. Ci sono donne vestite di bianco. Tutte giovani. Più o meno giovani.
Arrivo e con me c'è l'uomo, il regista che ora è in piedi. Guarito. Cammino. Loro non dicono nulla. Non ci sono parole. Solo suoni e colori.
Loro alla vista dell'uomo diventano serie. Vanno a prendere delle scatole. Dentro c'è una polvere bianca.
Chiedo cosa ci sia dentro e loro mi rispondono che sono le loro ceneri. Lì dentro c'è la loro verità. Quello che vedo io, quelle donne giovani che ridono vestite di bianco sono solo proiezioni. Ma non esistono.
Arriva anche un'attrice, Sandra Milo. E' giovane. "Devo anch'io prendere le mie ceneri". Capisco che per lei non significa scomparire. Le svuota su di sé e diventa vecchia. "Sono io questa. Non più quella". E va via più consapevole. Meno leggera. Non triste, ma più consapevole.
La maggior parte della altre donne scompare. Scompare appena si getta addosso le polveri.
Resto sola. Non c'è più neanche l'uomo.
Sono in strada. A Spezia. Piove. Con una donna che mi conosce, ma non so definirla. Piove. E' notte.
Entriamo in un auto. Poi ricordo un dolore al braccio e mi sveglio. Nel buio.
Mi piaceva quella casa. Anche se non avevo una mia camera, ma dovevo condividere gli spazi con mio fratello.
La mia scuola di musica era venuta anche a Spezia. Ci andava mio padre e poi per qualche strana ragione aveva iniziato ad andarci anche mio zio.
Piove. Sono grande già, l'età di adesso, ma è come se fossi tornata indietro nel tempo. Ci sono luci rosse nel cielo. Il cielo rosso dei tramonti e delle albe. Io ho un vestito bianco e sono a piedi nudi. In casa giro sempre a piedi nudi.
Ma anche in Liguria. Mi piaceva da bambina. Mia madre dal terrazzo mi dice di andare a comprare qualcosa dalla lattaia. E io non so perché ma ho paura di vederla. Dopo tanti anni.
Tuona. Avevo sognato tanti anni fa un diluvio, il diluvio che poi venne a Vernazza.
C'è sempre quest'acqua. Tanta acqua.
Rientro con un pacchettino e vedo mio zio uscire dal portone. Ora ci abitano loro lì, ma io sono confusa ancora. Tra passato e presente. Ha una borsa e mi dice che va anche lui lì. Che avrà la mia insegnante di canto in Nam. Gli dico di dirle che è mio zio. "Magari ti tratta bene".
Poi vado con lui. Per seguirlo. Aiutarlo. In questa mia modalità di essere madre dei grandi.
Protettiva. Non sono mai stata protetta.
Siamo nella sala attesa della scuola. Ci sono tutti gli insegnanti. Ma la sala d'attesa è in realtà quella di un albergo.
Devo salire. Nell'ascensore ci sono due uomini. Uno di questi è un noto regista e attore. Mi sembra Verdone. E la cosa mi fa ridere. Ha un cellulare e mi chiede un aiuto per alcune applicazioni.
Resto alcuni giorni in quell'albergo. L'amicizia con il regista diventa sempre più stretta e di nutrimento reciproco.
Ama prospettive diverse. E m'invita un giorno a stare fuori. Su dei letti sospesi. Sospesi su dei carrelli. Usciamo dalla finestra per raggiungere i letti. Ognuno il suo letto.
Ho sempre avuto paura dell'altezza. Ma lì con lui no. Poi lui si avvicina e mi fa vedere altre cose al telefonino. Ci sporgiamo un po' e io ho paura che lui cada. Ma sento che lui non ne ha. E mi tranquillizzo.
Poi mi sdraio e d'impeto faccio un movimento vivace e repentino. Uno dei miei. E il mio letto sospeso si muove e sbatte contro il suo. Lui cade e rimbalza.
Io vedo tutto. Dall'alto vedo tutto. Ma lui non so neanche più se sia un lui, ma una lei. Eppure io la vedo come fosse un uomo.
Lui è a terra. E' vivo, ma non sa più se riesce a muovere le gambe. Arriva l'ambulanza. Mi sento osservata e come al solito ho paura di avere rovinato tutto. Mi chiedo cosa accadrà. Se perderò il sogno.
Il buio e mi risveglio in una casa calda. C'è il suo amico che ride. Io sono lì e vedo che a letto c'è lui. Il regista. Che però ha un altro volto. Non è Verdone è un altro uomo, ma è più asciutto. Ha gli occhi diversi.
Vado a letto da lui. Lo abbraccio. Piango. Lui ride e mi abbraccia. Sento tanto calore. Amore. Comprensione. Non l'ho fatto apposta. Lui lo sa.
C'è questa luce rossa. Di un fuoco. Il rosso di qualcosa che avvolge. Di un amore che cerco in una comprensione.
Mi addormento tra le sue braccia. Poi capisco che quella casa è un ospedale o una specie di. Ci sono donne vestite di bianco. Tutte giovani. Più o meno giovani.
Arrivo e con me c'è l'uomo, il regista che ora è in piedi. Guarito. Cammino. Loro non dicono nulla. Non ci sono parole. Solo suoni e colori.
Loro alla vista dell'uomo diventano serie. Vanno a prendere delle scatole. Dentro c'è una polvere bianca.
Chiedo cosa ci sia dentro e loro mi rispondono che sono le loro ceneri. Lì dentro c'è la loro verità. Quello che vedo io, quelle donne giovani che ridono vestite di bianco sono solo proiezioni. Ma non esistono.
Arriva anche un'attrice, Sandra Milo. E' giovane. "Devo anch'io prendere le mie ceneri". Capisco che per lei non significa scomparire. Le svuota su di sé e diventa vecchia. "Sono io questa. Non più quella". E va via più consapevole. Meno leggera. Non triste, ma più consapevole.
La maggior parte della altre donne scompare. Scompare appena si getta addosso le polveri.
Resto sola. Non c'è più neanche l'uomo.
Sono in strada. A Spezia. Piove. Con una donna che mi conosce, ma non so definirla. Piove. E' notte.
Entriamo in un auto. Poi ricordo un dolore al braccio e mi sveglio. Nel buio.
Iscriviti a:
Post (Atom)