lunedì 19 ottobre 2015

Non sono mai stata protetta

L'uomo senza dubbi.
Sto' facendo le prove per uno spettacolo che non amo. Colori e faccine. Finto. Tutto finto. Eppure non so liberarmi. Non so dire: "Mi fa cagare!". E mi annoia anche. E l'arte non da' soldi e non annoia. Ma tocca, spaventa, ti ritorce dentro.. le viscere iniziano ad esistere e a svegliarsi.
Invece in questo spettacolo mi sento in gabbia.
Poi gli scrivo.  E' lontano. Non so se vorrà vedermi. Là a Barcellona. La città del sole. Della cattedrale vertiginosa. Ogni volta che ci salivo sopra sentivo la testa girare, e l'aria sospesa nel mio corpo, con il vento che penetrava e l'amore dei suoi occhi. Pepe. L'uomo per cui non ho mai avuto dubbi. Con lui su quella cattedrale toccavo Dio.
Così vado da lui. Lo incontro. Cerco il suo conforto anche se ci siamo lasciati da dieci anni. Lui è freddo. Come da quando ha deciso che la separazione affettiva e "dimenticare" fosse l'unica soluzione. Al dolore. Ma sento che quella è paura. E allora cerco l'origine di quell'amore.
Non ho mai avuto dubbi per lui. Di amarlo senza condizioni. E che fosse giusto.
Non ho risposte. Ho solo la certezza che è stato così. Che fu così.
Ma poi ho un dente che mi fa male ed Elena mi cura.
Quando mi sveglio ci sono solo io nel buio. Il corpo di un uomo altro da Pepe. Poi resto sola.
Dormo sola. Nel mattino che mi accoglie. Sono solo sogni che rispondono ai messaggi di Diego di scuse.. Scuse su scuse in un momento in cui non ho più forza per lui.
Promesse.. promesse. Mentre cerco conforto nel corpo di un altro. Da lui e da me.
Me ne sto' andando definitivamente da lui e mi manda composizioni per un CD che sta' tentando di partorire da quando lo conosco.
Ma in fondo non gli importa di me. Ha solo paura che io non sia più di sua proprietà. E che possa splendere senza di lui. 
Il suo volermi controllare sta' diventando sempre più penalizzante. Mi sta' asciugando.
Venerdì sera dopo le prove ancora.. i suoi attacchi nell'alcool. E il suo tentativo di farmi sentire malata perché faccio arte e teatro. Perché sto' diventando sempre più indipendente da lui artisticamente, più brava. E non ho paura degli insuccessi come li ha lui. Perché per me l'arte è vita. Per lui affermazione di un "ego" ancora. O chissà cosa..
Non ho paura della frustrazione di non apparire sul cartellone di un "grande teatro" dal momento che il teatro in quanto tale è morto. Nei grandi teatri passano lo specchio di ciò che la società vuole ora. O la scia di un mercato che intrattiene, ma non prende e non da'. Passa per la televisione e per una comunicazione che non parla. Il dolore è sotto la tecnica e immagini che usano sempre più tecnologie dietro cui ci si nasconde.
E per me il teatro è l'umano che parla nella sua nudità ad un altro che vuole ascoltare la sua verità e la sua ferita.

Ho imparato ad attaccare e ad usare le parole di Diego come motivi per amarlo sempre meno. Sempre meno. Come è successo con Giovanni. Con Mattia. E con tutte le persone a cui ho dato una sincerità imperfetta, ma onesta. Chiedevo banalmante di comprendere l'incomprensione della mia diversità.
Ma almeno sto' imparando ad amare meno chi mi fa del male. Perché chi ti ama, resta. Davvero.
Per anni ho compreso. Accettato. Non mi sono mai realmente arrabbiata. Ho solo covato un rancore latente per mio padre. Nel silenzio. E per mia madre che non c'era.
"Io non sono mai stata protetta ?". Dice così Paolo.
Era la frase di un sogno. Tento di divagare, ma poi piango. Si. Sono diventata io protettiva per raggiungere la protezione materna che non poteva più esserci. Ma non sono mai stata protetta. Il possesso e la gelosia di mio padre non era protezione. Erano le sue paure. Era lui su di me. L'assenza di mia madre era la sua malattia. Sono solo fuggita e ho rimpiazzato concetti, come la protezione. Dimenticandomi di me. Di trovarmi. Di capirmi.
E poi torna l'evento. E piango. "Voglio solo dimenticarlo. A cosa serve? So che c'è stato. Che mi ha fatto del male e mia madre non c'era a proteggermi da lui. Ne ho parlato tanto anche nell'altra mia analisi. Ma non serve. Ci sono ferite che restano. Possiamo solo conviverci o tentare di farci meno male e trasformare quel dolore". Eppure piango. Perché penso allo scempio che ho fatto della mia vita. A quella bimba che ancora grida.
Fare i genitori è la cosa più difficile del mondo. Si pensa di essere padre e madre in base al ruolo che viene tramandato. E si ama secondo quello che la madre, la nonna, la trisnonna nei secoli dei secoli ha tramandato. E invece è più complesso o libero di così. Ogni figlio è una vita a sé. Diversa. Ed unica. Non la nostra proiezione. Non il rimando dei nostri insuccessi. O il tentativo di riappropriarsi di noi attraverso la vita di un figlio.
Dovremmo essere così evoluti da sapere ascoltare. Di tenere come un tesoro la materia viva e nuova tra le mani e guidarla nella sua vita indipendente.
Come fa uno scultore con una sua statua. Come fa uno scrittore con una pagina bianca. Come tento di fare io con lei. Per toglierla da me. Partorirla e lasciarla vivere diversa da me. Senza un controllo. E amarla nella sua diversa imperfezione.

lunedì 12 ottobre 2015

La polvere della verità

Sono a casa. In Liguria. Nella casa dove sono cresciuta. In via Giovanni Bosco. Era una casa bianca che mio nonno aveva comprato appena in costruzione.
Mi piaceva quella casa. Anche se non avevo una mia camera, ma dovevo condividere gli spazi con mio fratello.
La mia scuola di musica era venuta anche a Spezia. Ci andava mio padre e poi per qualche strana ragione aveva iniziato ad andarci anche mio zio.
Piove. Sono grande già, l'età di adesso, ma è come se fossi tornata indietro nel tempo. Ci sono luci rosse nel cielo. Il cielo rosso dei tramonti e delle albe. Io ho un vestito bianco e sono a piedi nudi. In casa giro sempre a piedi nudi.
Ma anche in Liguria. Mi piaceva da bambina. Mia madre dal terrazzo mi dice di andare a comprare qualcosa dalla lattaia. E io non so perché ma ho paura di vederla. Dopo tanti anni.
Tuona. Avevo sognato tanti anni fa un diluvio, il diluvio che poi venne a Vernazza.
C'è sempre quest'acqua. Tanta acqua.
Rientro con un pacchettino e vedo mio zio uscire dal portone. Ora ci abitano loro lì, ma io sono confusa ancora. Tra passato e presente. Ha una borsa e mi dice che va anche lui lì. Che avrà la mia insegnante di canto in Nam. Gli dico di dirle che è mio zio. "Magari ti tratta bene".
Poi vado con lui. Per seguirlo. Aiutarlo. In questa mia modalità di essere madre dei grandi.
Protettiva. Non sono mai stata protetta.
Siamo nella sala attesa della scuola. Ci sono tutti gli insegnanti. Ma la sala d'attesa è in realtà quella di un albergo.
Devo salire. Nell'ascensore ci sono due uomini. Uno di questi è un noto regista e attore. Mi sembra Verdone. E la cosa mi fa ridere. Ha un cellulare e mi chiede un aiuto per alcune applicazioni.
Resto alcuni giorni in quell'albergo. L'amicizia con il regista diventa sempre più stretta e di nutrimento reciproco.
Ama prospettive diverse. E m'invita un giorno a stare fuori. Su dei letti sospesi. Sospesi su dei carrelli. Usciamo dalla finestra per raggiungere i letti. Ognuno il suo letto.
Ho sempre avuto paura dell'altezza. Ma lì con lui no. Poi lui si avvicina e mi fa vedere altre cose al telefonino. Ci sporgiamo un po' e io ho paura che lui cada. Ma sento che lui non ne ha. E mi tranquillizzo.
Poi mi sdraio e d'impeto faccio un movimento vivace e repentino. Uno dei miei. E il mio letto sospeso si muove e sbatte contro il suo. Lui cade e rimbalza.
Io vedo tutto. Dall'alto vedo tutto. Ma lui non so neanche più se sia un lui, ma una lei. Eppure io la vedo come fosse un uomo.
Lui è a terra. E' vivo, ma non sa più se riesce a muovere le gambe. Arriva l'ambulanza. Mi sento osservata e come al solito ho paura di avere rovinato tutto. Mi chiedo cosa accadrà. Se perderò il sogno.
Il buio e mi risveglio in una casa calda. C'è il suo amico che ride. Io sono lì e vedo che a letto c'è lui. Il regista. Che però ha un altro volto. Non è Verdone è un altro uomo, ma è più asciutto. Ha gli occhi diversi.
Vado a letto da lui. Lo abbraccio. Piango. Lui ride e mi abbraccia. Sento tanto calore. Amore. Comprensione. Non l'ho fatto apposta. Lui lo sa.
C'è questa luce rossa. Di un fuoco. Il rosso di qualcosa che avvolge. Di un amore che cerco in una comprensione.
Mi addormento tra le sue braccia. Poi capisco che quella casa è un ospedale o una specie di. Ci sono donne vestite di bianco. Tutte giovani. Più o meno giovani.
Arrivo e con me c'è l'uomo, il regista che ora è in piedi. Guarito. Cammino. Loro non dicono nulla. Non ci sono parole. Solo suoni e colori.
Loro alla vista dell'uomo diventano serie. Vanno a prendere delle scatole. Dentro c'è una polvere bianca.
Chiedo cosa ci sia dentro e loro mi rispondono che sono le loro ceneri. Lì dentro c'è la loro verità. Quello che vedo io, quelle donne giovani che ridono vestite di bianco sono solo proiezioni. Ma non esistono.
Arriva anche un'attrice, Sandra Milo. E' giovane. "Devo anch'io prendere le mie ceneri". Capisco che per lei non significa scomparire. Le svuota su di sé e diventa vecchia. "Sono io questa. Non più quella". E va via più consapevole. Meno leggera. Non triste, ma più consapevole.
La maggior parte della altre donne scompare. Scompare appena si getta addosso le polveri.
Resto sola. Non c'è più neanche l'uomo.
Sono in strada. A Spezia. Piove. Con una donna che mi conosce, ma non so definirla. Piove. E' notte.
Entriamo in un auto. Poi ricordo un dolore al braccio e mi sveglio. Nel buio. 

venerdì 9 ottobre 2015

Il discorso dell'altro

E' un problema di autorizzazione alla mia autenticità. E se non mi autorizzo, se non la autorizzo, non arriverò mai alla verità in arte.
Eppure ci sono quasi. Se non fosse per queste relazioni che ho paura di perdere. Ancora.
Mi siedo di fronte a lui. Il suo studio non mi piace. Ha poche cose. Ma lo riempio subito con tutto il mio immaginario. Che è immenso, infinito.
Non mi annoio da sola. Sono capace di passare ore e ore e ore, una vita intera con le voci che spuntano di continuo da ogni mio poro.
E' un'infinita massa simile ad un blob chiaro e informe che cambia. Si plasma.
Mi siedo. Ha dei libri, ma non riesco a leggere i titoli. Uno è aperto e lo chiude subito. Sottolineato in modo ordinato. Io, i miei, li mangio.
Questo maschile. Il mio discorso devo portarlo sempre ad un essere umano biologicamente maschio.
Chiude il libro aperto e nel farlo cade la matita. Per raccoglierla mi scontro con la sua mano.
Sono in imbarazzo. E' strano. Con John non avevo paura del contatto fisico. E con lui si.
Non so come si chiama. O meglio, si, ma non lo chiamo. Lo dimentico ogni giorno. E questa, per me, è una novità.
Parla a voce bassa e poco. Molto poco. Ogni tanto mi ferma e mi fa riflettere sulle parole che percepisce abbiano un significante esatto.
E' la mia autenticità che tento, finalmente, di puntualizzare. Si, ma qual'è?
Che non sono una donna per bene. Non me ne è mai importato niente di esserlo. Da sempre. Ho sempre trovato noioso essere una brava ragazza, nel senso comune.
Ero tutta nervi scoperti con questa pretesa di amare ed essere amata. Ma di un amore che fosse autentico.
La prova della mala, l'ultima, è andata bene. Ho sudato. Ho tirato fuori tutta la mia energia toccandomi la vagina con il pesce. E urlando questa maternità che fa solo aborti. Come posso generare vite se non sono autentica ancora?
Racconto di Diego. Sempre lui. Solo lui. Chissà se lo amo davvero. Me lo sono chiesta.
Siamo andati a cena. Al giapponese. Lo fa per me. Perché mi piace. Quello bello, vicino casa sua.
E sono arrivata tardi. Ma lui mi ha aspettata. Lo vedo che mi ama. E lo diverto.
Ma finita la cena, il tempo di portare la macchina ad un parcheggio, e lui, nei dieci minuti tra il ristorante e casa sua, si è già fatto i suoi cicchetti.
Sotto casa, il copione. Io mi arrabbio. Saliamo da lui. Lui mi dice mollami. Io urlo che ho bisogno di un uomo diverso. Che è uno stronzo. Lui mi dice che con il teatro non ci campo. Che con la musica è diverso. Che sono una fallita con l'altra regista arrivata dalla Russia apposta per portarmi via da lui! Gli dico di ridarmi i miei pezzi, le mie canzoni e che non voglio più comparire nel suo CD.
"Stronza! Mi ricatti?". SBAM! Il mio schiaffo in pieno viso! E lui, in mutande, che mi guarda innamorato mentre gli dico che è stronzo lui a ridursi così a 51 anni.. che se non gli importa di me, almeno di sua madre!
Lui non reagisce mai ai miei schiaffi. Fuma. E in calzini e mutande, alla mia seconda provocazione, "Ho bisogno di un uomo diverso accanto!", lui dice: " E io ho bisogno di una donna che mi protegga! Che mi tiri fuori!". E me lo dice disperato, in mutande e calzini, guardandomi con gli occhi rossi dall'alcool. E mi viene da ridere.
Mi sta' dicendo che lo devo proteggere, seminudo.. e io non so più come fare. Mi spoglio anch'io. Mentre lui dice: "Amore, andiamo a letto?". E io rido perché sono tutta nella mia comica, consapevole di esserci.
Poi lui mi chiede di sposarlo. E la comica avanza. "Ti mantengo io. Tu scrivi le tue cose. Facciamo un bambino, ogni tanto fai un po' del tuo teatro e poi segui me. Viviamo in Liguria finché il bambino non ha dieci anni e poi veniamo a Milano".
E io rido. Ma perché da' per scontato che io partorisca un maschio e mi vada bene rinchiudermi in Liguria vista mare con lui?
Poi andiamo a dormire. Arriva anche Jack. E sono nel mezzo del letto, con Diego a destra, Jack a sinistra. Che mi schiacciano. E russano.
Abbraccio Diego. Nella sua nudità. Sono più forte di lui. Lo sa. E probabilmente mi ama di più. Più di quanto non sia disposta io.
"Sei la cosa più importante che ho - mi dice - ma ho questo problema compulsivo.. ma ti amo".
La mattina dopo facciamo l'amore. Poi lui parte per la Liguria e mi lascia a casa da lui. Deve andare giù per arrangiare i tre dischi di Matteo. Sta' con lui e l'altro chitarrista chiuso tre giorni in casa a lavorare.
Mentre lo saluto dalla finestra mi urla: " Ho bevuto un po' ieri eh?". E poi se ne va.
Resto sola nella sua casa. Che mi piace perché c'è il suo piano, la musica, i suoi cd. Ma mi terrorizza il suo discorso. Che è il discorso dell'altro. Non il mio. Eppure mi tiene lì ancora.
In questa paura di perdere le mie paure. E dire al mondo che io sono mala, non sono una donna per bene.
Non voglio essere amata per ciò che non sono. Ma per ciò che sono, per il mio discorso di donna, che non è quello di una donna per bene, quella che mio padre voleva che fossi, quella che tutti gli uomini cercano in fondo.
Non voglio chiedere più perdono a me stessa e agli altri di essere così: ossessiva, altrove, infedele, mutevole, totalmente libera, presuntuosa, selvatica, a volte materna con esseri fragili e vanitosi.
Voglio scrivere e dedicare le stesse parole a uomini diversi e dire ogni volta: è la prima volta..
La prima volta per il mio discorso.

lunedì 5 ottobre 2015

La mia normalità è la mia autenticità...

...E non è quella di mio padre.
"Non correre Annalisa". "Non mettere questo". "Non sta' bene questo".
"A me gli altri, l'altro non interessa. Me ne fotto dell'altro!!".
Lo dicevo alle medie, al liceo.. poi mi sono adeguata a suon di punizioni, reclusioni, soffocamenti.
Ma ero saggia. L'altro erano le paure di mio padre nell'avere tra le mani una forma informe che tendeva a trovare una forma autentica, magari anche brutta, ma autentica.
Ieri sera con Elena abbiamo lavorato la bruttezza della Mala. Sta' tentando di portarmi in un'autenticità che grida e lotta con questa Daurine normale e senza verità.
Le prove erano alle 19. Lei è arrivata un pochino dopo. Io urlavo in mezzo alla strada con Diego al telefono.
"Non ti permettere più di chiamarmi cretina o di dirmi quello che devo o non  devo fare! Quello che devo scrivere o meno!".
Sembra lo stesso copione.. lo stesso.. Come urlavo con mio padre, in casa..
"Avevo il vizio di sbattere le porte da bambina se qualcuno mi faceva arrabbiare.." dice ridendo Elena. E' una battuta della Mala.
"L'avevo rotta io.." continuo io..
Rompevo maniglie, cose... così faccio con lui. Con Diego.
Ma non "rompo" lui. Rompo cose. Oggetti. Mi sfogo su ciò che è inanimato. L'unica entità vivente ed animata che uccido è me stessa, parti di me.
Elena si gira una sigaretta. Ride e dice: "Lisa, ma quando lo lascerai?".
Lui fa sempre così. Mi allontano. Ci ritroviamo. Poi appena inizio a prendere il volo artisticamente o sente odore d'indipendenza, mi da' una zampata per buttarmi a terra.
"Alla fine lo hai idealizzato. E' un mediocre. Vuole una vita mediocre. Non potrà mai cambiare".
 Per un tempo è stato interessante, per la mia crescita. Ma ora. Ora non esiste niente d'interessante a livello affettivo se non... me.
C'è un universo sotto. Giù. Appena sopra la mia vagina, le mie ovaie, che nascondo. E' quella verità e autenticità che terrorizzava mio padre.
"Non dire quello che pensi". La negazione del sé.
Probabile che sia questo "Sé" laggiù. Tra la mia vagina e le mie ovaie a voler uscire.
Sono insicura. Piena di nevrosi e scivolo nell'autismo a volte.
Elena ride. Suresh si arrabbia e mi odia. Gli altri da me, mi vedono strana. Ho paura di tutto. Di me. Continuo a pensare di non valere niente. Distruggo ogni cosa che costruisco. Devo solo avere la fortuna d'incontrare qualcuno che mi ami più di me per non buttare via tutto o aspettare la fine.

E' domenica sera. L'ultima nello spazio di Giacomo. Stiamo provando nel suo spazio da una settimana. L'ho trovato grazie ai ragazzi di IT Festival. Lo spazio è carino. Ci sono due pianoforti. E il suo studio con scritto "Private", ma siamo entrate io ed Elena. Come due bambine. Un mondo a sé.
Giacomo è un insegnante dell' Accademia di Brera.
Ci siamo innamorate del suo spazio. Ci sono scatoloni con alcuni libri scritti da lui: "Gli uomini non possono essere violentati".
E poi un altro libretto che nasce come rilettura della Tosca. M'incuriosisce. Ha gli occhi blu. Avrà quasi cinquant'anni. Forse è più giovane di Diego.
Io ed Elena siamo alla ricerca di uno spazio. Una compagnia di Sesto ci ha proposto di condividere a 250 euro lo spazio con loro. Ma a me non piace molto. Neanche ad Elena.. Sembra un po' un crocevia di arte al chilo. Troppa gente.. corsi di kapoeira, yoga, concerti rock per rianimare il quartiere e teatro sociale. Che cacchio è il teatro sociale? Sono diventata intollerante ad ogni forma politica e psicologica dell'arte. L'arte e arte. Non c'è politica o psicologia. Ma solo bisogno ed esigenza di...
Spiegherà chi non sa amare. Per proteggersi.
Palesiamo a Giacomo il nostro desiderio di restare a provare nel suo spazio e condividere con lui l'affitto, ma non è aperto. Ha paure. Si segna in agenda. Scrive sul tablet.
Elena voleva sedurlo, ma io avevo capito subito fosse gay. Eppure ha quella sensibilità artistica che mi fa capire che quello, il suo spazio è il posto giusto.
Ma vuole troppi soldi per condividere un affitto. Gli scrivo che per noi è troppo.
Due giorni dopo mi risponde dispiaciuto. E mi chiede di poter assistere ad una prova. Si presenta questa sera. "Esco dal cinema e vengo a vedervi".
Io sto' provando con la mia collana. L'orata è solo un pesce finto ora. Perché quello vero ormai puzza troppo e non riesco ad entrare in sintonia con lui, sin nell'osceno.
Così inizio.. Giacomo si siede e mi guarda. Anche Elena. La mia bruttezza in scena va oltre le parole. Ma le parole sono ancora così forti.. M'interrompo. "Scusa Giacomo, ma sto' cercando ancora..".
Lui si toglie le scarpe e si mette al centro e mi fa vedere due cose che potrebbero cambiare. Con tatto poi mi dice: "Ma il testo di chi è?".
"Mio!" rispondo con orgoglio..
"Molto bello", dice. E poi si apre. Dice che sta' per diventare padre. Con il suo compagno. Che la madre è un utero in affitto. Un utero americano. E i gemelli stanno per nascere a novembre. Come nella mia storia. Prematuri. Pare nascano prematuri. Come la mia mala.
Nel mio testo parlo del mare nero.. di maternità, d'infanzia e di una diversità. O di una normalità che tenta di essere autentica anche se non risponde alle regole.
E Giacomo ha gli occhi rossi. Anche se la mia interpretazione non è ancora perfetta, lui ha colto. Si è ritrovato. In tutto quel mare, in quel novembre imminente, in quella violenza. Che forse è stata anche la sua.
"Ragazze, io vorrei non perdervi. Mi piacerebbe avervi qui e che continuaste qui il vostro progetto.. quindi ve lo lascio al prezzo che riuscite a pagare. A me fa piacere che qui resti l'arte".
Ci abbracciamo. Ci siamo capiti o trovati. Ci augura buon lavoro e se ne va con garbo e gentilezza.
Mangio due pesche di fila. E mi fa male lo stomaco.
"Lisa, vedi... ma smettila di dirti che non sai fare.. di giustificarti... di non riconoscere la tua propria forza.. siamo state brave. A lui è piaciuto il lavoro. Ha sentito un'onestà.. ".
Si sono contenta. Usciamo. Divento ansiosa.
Accompagno Elena a casa. E prima di lasciarla penso: "Ma c'è il riscaldamento nello spazio?". Elena ride.
Ma io torno allo spazio e controllo tutti i termosifoni. Nella mia nevrosi. Controllo tutto. E non c'è niente che non va. Quel luogo è perfetto. Giacomo lo è. Elena è la persona giusta.
Non ho più scuse per abbracciare la mia normalità che è la mia autenticità.
Che non è quella di mio padre...


giovedì 1 ottobre 2015

Tropico del cancro

Un vestito nero. Una sala prove. Il mio pesce congelato da maggio. Le sue carni puzzano.
Il mio copione. Elena e il suo quaderno. Li seduta a guardarmi e ad amarmi.
Regista lei, attrice e drammaturga di me stessa io.
Si è trasferita a Milano per un lavoro al teatro I che le avevo suggerito. E per me, noi. Per la compagnia. "Siamo solo io e te". Dice ridendo lei. E' abbastanza per essere una compagnia. Per i miei gusti.
E' così difficile incontrare qualcuno che risponda alla tua mancanza. Alla necessità di raggiungere quel mistero che non si colmerà mai. Infatti ci chiamiamo Misteria. Dal significante russo.
La sera prima siamo andate a vedere a teatro uno spettacolo. Non ci era piaciuto.
Siamo uscite nauseate e confortate allo stesso tempo. Confortate rispetto al nostro progetto, ma poi io mi sono persa: "Se questo è il teatro acclamato, premiato e criticato, che senso ha tutta la nostra ricerca?".
E così, io sono andata a casa e mi sono lasciata travolgere dal malessere e da questa impotenza. Lei invece, dormendo con la croce della chiesa di fronte la sua finestra, è tornata il giorno dopo alle prove piena di forza.
"Lisa, devi leggere il Tropico del Cancro di Miller".
Inizia così. Siamo tutte e due nella stessa situazione. In questo nostro perderci e nasconderci dietro a uomini. Di cui vogliamo prendere l'anima.
Come Camille Claudel. Come la Spillrein. Fantasmi che nascondono la nostra essenza.
Anche lei sofferente per la fine della storia con il suo scrittore e io in equilibrio sofferente con il mio pianista. Ma chi sono questi uomini?
Il suo la tradiva andando a trans e con altre pseudo artiste di un collettivo a Torino, e il mio ... beh.. il mio.. è già storia.
Ride. "Leggi il Tropico Lisanka, ti aiuterà. A me sta' aiutando".
Elena è russa. E' una presenza importante e rassicurante nella mia vita. Più giovane di me, ma già grande. Stiamo imparando tanto insieme. Abbiamo un'idea comune del teatro. E stiamo sperimentando la nostra umanità. Principalmente. Mai come in questo periodo il teatro e l'umano nel mio percorso si stanno toccando. Unendo. Confondendo. Amando.
"Chiediti perché fai la mala". Mi aveva detto Diego la sera prima. Lui non crede più. Magari non ha mai veramente creduto nell'arte o in questa idea dell'arte così sacra ed assoluta.
Gli avevo risposto con un: "E' un'urgenza.. un'esigenza..". In fondo non lo so perché la faccio. O non così bene.
Per me è come andare in bagno. Fare teatro e scrivere è come defecare senza problemi ogni giorno. Ecco, non è un'immagine santificante, sacra ed elevata, ma così è.
Anche l'amore non è poi così elevato. Anzi.
Non funzionano le prove. Sono troppo presa dalla mia emotività. Dal mio ego per buttarlo sul pubblico. Sono lì che piango e rotolo. Sbavo e piango ancora.. tutti liquidi che spargo sul linoleum.
"Lisa, cerchi compatimento.. perché? Sei troppo bella.. vai oltre.. cerca la tua bruttezza.. deformati".
E' sempre così. Il testo che esce da me si scontra con me. Ho paura della mala. Ho paura del mio stesso testo.
La data è il primo novembre. Devo sapere affrontare il dolore delle doglie.
Un'improvvisazione e la cosa si scioglie. Un po'.
Usciamo. Sono in totale paranoia. Cieca. Ancora cieca.
"Lisanka devi proteggerti da tutta questa emotività. Veicolarla". Non so neanche come sia proteggersi.
E' una lezione umana che mi manca.
Perché faccio la mala? Manca un mese. L'ultimo mese di gestazione e mi sento pesante. Mai come ora mi sono sentita madre e in relazione con la mia maternità.